Walter Veltroni

Infotainment e spettacolarizzazione del dolore: analisi dei casi Scazzi, Rea e Gambirasio

La tv del dolore in Italia ha origine con la diretta della tragedia di Vermicino. Da questo punto (analizzato qualche tempo fa da un bel libro di Veltroni) è partita Silvia Santambrogio per analizzare (nella sua tesi di Comunicazione dell’Università degli studi di Milano) quello che è stato definito il passaggio dalla paleo alla neotelevisione.

Vermicino ha messo sotto gli occhi i tutti la forza che la televisione ha nei confronti dell’opinione pubblica (e della politica). Se ne era intuita la forza ai tempi del monopolio statale, è deflagrato con l’arrivo della tv commerciale.

L’essere umano da sempre, dai tempi delle tragedie greche, è interessato al dolore altrui. La tv ha incentivato tale curiosità con la forza delle immagini. Immagini che lasciano sempre meno spazio all’immaginazione. Come avvenuto nelle tre tragedie (private) che sono state raccontate con dettagli morbosi in tanti programmi tv e che sono al centro di questo interessante lavoro.

Ad maiora

Da Melissa a Rosi. Perché Renzi chiama per nome solo la Bindi?


Non farò nomi, ma solo cognomi. Usa un trucco alla Totò il sindaco Renzi anche se Antonio De Curtis con la sua lista 47 resta insuperabile:

Ma torniamo a Renzi.
Non farò nomi, solo cognomi. E in effetti dei tre quarti delle persone che cita usa il cognome, anzi per Marini, anche il nome. Per D’Alema e Veltroni invece solo il cognome.
Cita un solo nome di battesimo tra i 4 che il sindaco di Firenze vorrebbe rottamare: Rosi.
Non credo intenda Rosi Mauro: lei, come abbiamo più volte scritto, è il capro espiatorio leghista, la “strega” verde da bruciare in piazza.
La Rosi cui si riferisce “il Matteo” è la Bindi.
E come mai la chiama per nome?
Innanzitutto perché dei 4 politici da mandare in pensione è l’unica donna.
E poi perché uno dei principi della videocrazia che impera in Italia è proprio l’uso del nome anziché del cognome. Di solito nei confronti delle vittime di omicidi: Sarah, Yara ora Melissa (chiamata per nome persino da zero-empatia Monti).
Gli eroi televisivi maschi quando muoiono hanno invece spesso il diritto al cognome: Simoncelli e Morosini. Semmai un nick, ma tratto dal cognome.
In politica, chiamare per nome una persona significa sminuirla. Sopratutto se tu sei giovane e lei lo è meno.
Ma poi, alla fine, perché Renzi non cita Bersani, anzi, “caro Pierluigi”?
Ad maiora

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Delle due, una

O non ci vai in tv, come Grillo (che pure quando ero giovane me lo ricordo bello magnetico).
O se ci vai come Veltroni stasera al Tg3, impari a guardare in camera e non verso il monitor che ritrasmette la tua immagine.
Eh sì che ne capisce di tv l’ex segretario Pd.
Mi ricorda però quegli altri democratici ospiti di Mineo che guardano il direttore di Rainews mentre lui, invano, guarda in camera.
Ad maiora.

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MA QUANDO USCIREMO DAL POZZO DI VERMICINO?

Tornare nel pozzo di Vermicino a trent’anni di distanza dalla morte di Alfredino Rampi è ancora un’esperienza con cui è ancora difficile rapportarsi. Soprattutto perché la sua mediatizzazione spinse tutto il paese dentro quel cunicolo dal quale quel ragazzino – malgrado una serie di disperati (e a volte maldestri) tentativi – ne uscì solo cadavere.

Nei corsi di giornalismo televisivo, parlo di Vermicino come l’11 settembre della nostra televisione: c’è un prima e un dopo.

Inevitabile è stato, da quest’anno, inserire “L’inizio del buio” (Rizzoli) di Walter Veltroni tra i volumi da leggere per capire la realtà televisiva del nostro scalcagnato paese.

Veltroni nel toccante volume racconta due storie parallele: quella di Vermicino e quella dell’infame sequestro di Roberto Peci, rapito e ucciso dalle Brigate rosse (anzi, dalla «Salò delle Br») dopo 53 giorni di sequestro. La sua unica colpa, essere il fratello di un pentito. Il “processo popolare” contro il ragazzo (che a venticinque anni faceva l’antennista, era sposato e in attesa di una figlia che non avrebbe mai visto nascere) fu – per volontà di uno degli ultimi leader brigatisti Giovanni Senzani – ripreso da una telecamera amatoriale. La condanna a morte di Roberto fu filmata e, come molti interogatori, ora la si trova in rete:

http://youtu.be/77mR1K7UOtY

Nel volume si spiega l’impatto morale che ebbe sul paese soprattutto il caso di Vermicino, che uscì da quella vicenda – dopo il terremoto irpino – con un’altra cocente sconfitta. D’altronde, il rapimento di Peci (che a sua volta era finito in carcere per aver nel passato aiutato il fratello), così come i tentativi dei familiari e di pochi coraggiosi (i soliti radicali, ma anche alcuni intellettuali come Marco Boato, Gad Lerner, Adriano Sofri e Luigi Manconi) fu pressoché ignorato. La Repubblica Italiana che si mobilitò (tramite i servizi) per liberare (a suon di milioni e tramite i buoni uffici della camorra) l’assessore Cirillo, si disinteressò della sorte di quel suo cittadino, bollato come ex terrorista e assassinato a favore di camera. Di Roberto Peci, Veltroni nel ricordare che la prima telefonata di rivendicazione annuncia il sequestro del «fratello del pidocchioso Patrizio», scrive: «La definizione di “pidocchioso” è razzista e fascista». Quel processo farsa  – che Senzani decide di mediatizzare perché «si trova sempre un giornalista che pubblica se gli diamo qualcosa di ghiotto» – darà il la a tanti altri processi in tv.

Di Alfredino Rampi, Veltroni racconta la forza con cui resistette tre giorni dentro un buco, prima a 30 poi a quasi 60 metri dalla superficie, dal padre e dalla madre che – via microfono – ininterrottamente chiamò lungo la sua prigionia (trasmessa in diretta tv). Suoni che fa male sentire anche oggi:

http://youtu.be/xEONJh4i9ZI

Scrive l’ex segretario del Pd: «Lì è notte permanente. E dunque non si ha coscienza del tempo che passa. Un giorno infinito immerso in una notte infinita. Senza potersi muovere, incastrato in venticinque centimetri di pietra dura. Da impazzire. Se solo si è grandi e paurosi. Ma i bambini, si sa, sono i migliori esseri umani del mondo. E vanno incontro alla sofferenza con una capacità di resistenza superiore. Amano la vita, hanno voglia di viverla, non hanno nulla che li faccia sentire appagati. (…) Bisogna capire la complessità di un bambino per spiegarsi l’inspiegabile. (…) Alfredo era, come tutti i bambini, sapiente e innocente, tutto qui».

La “terribile macchina mediatica” che venne accesa per la morte di Alfredino («la trasmissione di informazione più vista nella storia della televisione») non si è più spenta. Sonnecchia, pronta ad allestire il circo, di fronte a nuovi drammatici casi di cronaca, da Cogne a Brembate. Dall’11 giugno 1981, spiega Veltroni non esiste più il “diritto allo strazio”, da allora la tv ha varcato l’ultima frontiera: «Vermicino è stato il punto di non ritorno, una di quelle strade dannate e assurde che l’umanità ogni tanto imbocca e dalla quale non sa più tornare indietro».

Dei segni di inversione di tendenza in realtà ci sono fin da allora. I genitori di Vermicino, ma anche tutti i misconosciuti eroi che si infilarono in quel tunnel italico, così come i parenti di Peci, non hanno scelto la lacrima televisiva, sono scomparsi dal teatrino mediatico. E la lettera di Roberta Peci all’assassino del padre che non ha mai conosciuto è un capolavoro di stile. Di un’Italia che non appare in tv ma che esiste e che presto – spero – tornerà protagonsta.

Ad maiora

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Walter Veltroni

L’inizio del buio

Rizzoli

Milano, 2011

Pagg. 266

Euro 18

I 25 anni dell’Arci Ghezzi di Lodi

“ImpegnArci per il quartiere” è un piccolo volume curato dall’amico Andrea Ferrari che narra i venticinque anni del Circolo Arci Ghezzi di Lodi. Un circolo storico del capoluogo della Bassa, dal quale sono passate centinaia di persone che hanno voluto creare un luogo di ritrovo alternativo al bar o alla parrocchia.

L’idea di raccontare (anche attraverso fotografie) la vita di questo luogo aggregativo, nasce dopo l’attentato neofascista che nel 2008 rischia di mandare a fuoco non solo il circolo, ma anche il palazzo nel quale è ospitato. “Per miracolo o per segno del destino – scrive Andrea – i preziosi scatoloni nei quali era contenuta la storia dell’Arci Ghezzi non vengono lambiti dalle fiamme”.

Dagli incontri con i protagonisti della Resistenza o della lotta alla mafia ai mega tornei di briscola, dal ristorante (prima autogestito) alla squadra di calcio che va a giocare anche in carcere con i detenuti. Dalla solidarietà a Cuba e ai Balcani, alle presentazioni di libri. I 5 lustri del Ghezzi sono raccontati con passione e partecipazione. E con l’idea scrive Ferrari nella presentazione (mentre l’intro è affidata a Walter Veltroni) che “bisognerebbe tornare a condividere dei luoghi di socialità che allontanino da un mondo che appare troppe volte solo virtuale”.

Ad maiora.