Prima di iniziare a recensire il libro di Gilberto Squizzato “La tv che non c’è” (Minimum fax, 2010), una premessa personale e necessaria.
Conosco Squizzato da vent’anni. Nel 1991 cercava giovani redattori da inserire nella nuova trasmissione “Europa” (che sta per chiudere in queste settimane, ma era già morta da tempo: i funerali sindacali si sono svolti a esequie già avvenuti) e dal Corriere (dal gruppo di Raffaele Fiengo, per l’esattezza), fui indicato io. Avevo 23 anni e da quattro anni bazzicavo i corridoi di via Solferino. Rispetto agli altri che vennero a “fare il provino” avevo qualche conoscenza televisiva in più, dato che da qualche mese curavo il tg di Lombardia7 (la dirigeva Paolo Romani, ora sottosegretario berlusconiano).
A Gilberto devo quindi il mio arrivo nell’azienda per la quale ancora oggi lavoro (dal 1991, con una pausa che mi fu imposta dalla politica nel 1994, ai tempi del primo governo di SB). Devo soprattutto quel poco che ho imparato di televisione. È, a mio modesto avviso, una delle persone che maggiormente conoscono la macchina televisiva nel nostro paese.
Da anni è lasciato dall’azienda del servizio pubblico radiotelevisivo (malgrado anche una sentenza della magistratura) a fare la muffa in un piccolo ufficio che è proprio sopra il mio: del suo caso, con un aplomb tipicamente britannico, parla in una nota a pagina 200 del volume. Nelle more di questa sua forzata inattività, Squizzato svolge in questo libro un lavoro immane. Propone uno schema di nuova governante della Rai. Non fa proclami ideologici e non lancia suggerimenti generici. No, disegna un possibile nuovo consiglio d’amministrazione (di 16 membri, come una volta), un nuovo amministratore delegato e un direttore generale editoriale che guidino la Rai. Una azienda che Squizzato sogna abbandonata dalla politica che ormai ne occupa tutti i gangli vitali. Sicuro che il Palazzo non farà da solo un passo indietro nell’occupazione del servizio pubblico, Gilberto invita nelle ultime pagine a una rivolta dal basso, fatta dai telespettatori.
Squizzato affronta anche il tema del finanziamento, negando l’ipotesi (caldeggiata da larghi settori dell’opposizione “democratica”) di smembrare la Rai, vendendone due canali, per lasciare il “servizio pubblico” relegato a Rai3. Anzi, il collega chiede un vero federalismo che renda la terza rete voce di quel territorio ormai scomparso da un’azienda completamente romanizzata (persino nelle fiction, malgrado le feste padane per un annunciato a mai realizzato sbarco di Rai2 a Milano).
Squizzato parla più della programmazione generale della Rai che del telegiornale in particolare. L’opinione pubblica, lo si capisce nel suo testo, viene più influenzata da un modo di proporre la realtà che traspare più nei programmi leggeri che in quelli “informativi”. Programmi sempre più spesso condizionati da una cultura americana, spesso lontana dalla nostra realtà. Ma ormai, come scrive «un ragazzo italiano, dopo una quantità smisurata di ore passate davanti alla tv, conosce tutta la geografia degli Usa, al punto che potrebbe viaggiare dall’Ohio alla California al Massachusset sentendosi quasi perfettamente a casa propria: ma quello stesso giovane non sa nulla di Orvieto, di Cefalù, di Luino e crede che il mondo sia un’immensa metropoli americana, che la verità sul delitto e sul male si possa scoprire solo con le tecniche di CSI, che i veri medici siano eroi solitari come il dottor House, mentre le adolescenti si persuadono che l’amore si possa vivere solo all’americana, come le protagoniste di Sex and the city. È una questione moralistica? No, è una questione di formazione del gusto, di capacità di lettura critica del reale».
Come d’altronde scrive Beppe Giulietti (parlamentare di Articolo 21) nell’introduzione, «proprio perché la Rai è pagata da tutti, dovrebbe essere il luogo dove dare cittadinanza e possibilità di espressione a tutti quei linguaggi, quelle identità, quelle diversità che altrove non trovano ospitalità, perché considerate ostili, non in linea con le volontà dell’editore, non utili alla raccolta pubblicitaria». Squizzato nel volume racconta la vicenda di una vecchia trasmissione “Di tasca nostra”, chiusa su pressione degli inserzionisti, chiedendosi quanto controllo eserciteranno su tv privati e giornali quegli inserzionisti che ormai dettano legge anche nei palinsesti. Il sogno di Squizzato (ma chi non sogna un futuro migliore?) è quello di un’azienda che riprenda in mano il suo destino, che torni a produrre tv anziché delegare ai venditori di format (alcuni dei quali, vale la pena ricordarlo come fa Gilberto) sono di proprietà del concorrente. È un format persino In mezz’ora dell’Annunziata: un tavolo, due sedie, un cronometro e un’intervista.
Tanto è esternalizzato in Rai, coi risultati che avete sotto gli occhi ogni sera e nelle orecchie se ascoltate la radio (in Mediaset lo è meno come ha rivelato il recente sciopero contro l’esternalizzazione del trucco). «Sarebbe come se il Corriere della sera avesse mantenuto solo la proprietà della tipografia e degli apparati commerciali appaltando il lavoro redazionale a società esterne, magari a un’agenzia formata da giornalisti di Repubblica», sottolinea con acume Squizzato che parla di creatività privatizzata e precarizzata.
La sfida che lancia il libro è anche a una riscrittura dei canali in vista della digitalizzazione (che come ricorda Squizzato non può essere solo nella trasmissione ma anche nella realizzazione, al momento invece ancora – incredibilmente – analogica) che dovrebbe essere sfruttata per ridare un senso a quel concetto di servizio pubblico, al quale Gilberto non ha dedicato solo questo libro, ma tutta la sua vita. Nella speranza, che la farfalla Rai torni a volare.
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Gilberto Squizzato
La Tv che non c’è
(Come e perché riformare la Rai)
Minimum fax
Roma, 2010.
Pagine 239
13 euro
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