Giappone

Visitare la Corea: la DMZ al 38º parallelo

Se andate in Corea del Sud non perdetevi una gita alla DMZ, ossia la Zona Demilitarizzata che, dalla fine della guerra (1953), divide le due Coree. 

Da Seul si parte in pullman per osservare il fronte sud di questo muro lungo 241 chilometri che corre lungo il 38º parallelo. La guida, bravissima, che ci accompagna ha avuto famigliari prigionieri del Giappone (paese che non ha mai chiesto scusa per lo schiavismo, per lo più femminile, quindi sessuale. durante l’occupazione militare) e quindi è molto critica verso la dittatura nordcoreana e sulla democrazia giapponese.

 

La prima tappa di questa “gita nella storia” è al Parco Imjingak dove vengono commemorate le vittime di guerra.  A piedi si arriva al Ponte della libertà, forse uno dei momenti più toccanti della visita.   Qui si percepisce proprio il dolore della separazione. Qui la cortina di bambù non è solo un nome ma una realtà.

In questa DMZ peraltro i coreani non possono venire in visita e il percorso del pullman è super blindato e viene fermato a numerosi posti di blocco per superare il fiume Imjin e arrivare nella terra di nessuno.  Si arriva quindi alla linea del fronte dove vi fanno visitare il terzo tunnel di infiltrazione, uno dei tanti scavati dal regime nord-coreano per invadere la Repubblica di Corea.  Il tunnel è molto basso e quindi vi forniscono di caschetti, sistemati – con precisione coreana – all’ingresso.

 La zona intorno al tunnel è completamente minata.  Il culmine della visita è dall’osservatorio Dora dal quale si può guardare, in lontananza, la cittadina nord-coreana di Kijongdong e l’altissima bandiera che il dittatore di Pyongyang ha fatto issare. Alla fine si spera che una risata li seppellirà. La stessa che fa un sorridente Budda, circondato, suo malgrado, dal filo spinato.  

Ad maiora 

Expo2015, i padiglioni da non perdere (e alcuni evitabili)

Partiamo dalla premessa che per vedere bene Expo2015 un giorno non basta. E che quindi bisogna operare delle scelte, che come tutte le scelte sono discutibili e possono portare a errori. Ma tant’è. Qui vi propongo alcuni padiglioni da vedere e altri che si possono anche saltare, basandomi ovviamente sui miei gusti e sulle mie sensazioni.

 
L’ordine in cui presento i padiglioni è una sorta di classifica. Che andrò aggiornando con le prossime visite al sito.

PADIGLIONE GIAPPONE
Chiunque si sia informato su Expo2015 sa che questo è uno dei padiglioni che non si possono perdere. La lunga fila (90 minuti) è ripagata dalla visita (che dura una cinquantina di minuti). 
Il Padiglione è fatto così bene da avere un meraviglioso logo dedicato, disegnato con le bacchette da tavola che vanno a formare la E di Expo.

 
Le bacchette (quelle con entrambe le estremità sottili sono per i giorni di festa) rappresentano a loro volta l’obiettivo di non sprecare neanche un chicco di riso, un germoglio di soia, un pezzo di alga. I giapponesi hanno anche una parola per tutto ciò: Mottainai, un invito a non sprecare cibo che rientra al cento per cento negli obiettivi di Nutrire il pianeta.

 
Il padiglione ha come titolo “diversità armoniosa” e nelle varie sale si possono scoprire tante caratteristiche culinarie che fanno di questo paese uno dei leader nella ricerca di una cucina (e di una cultura) davvero interessante.

 
Le sale sono tutte belle. La prima mostra, con video proiettati nel buio di un campo, il Giappone rurale nelle varie stagioni, la seconda un corridoio che racconta l’ospitalità di questo paese. Il terzo la diversità delle colture agricole. In questa stanza, scaricando l’app del Padiglione (il Wi-Fi è gratuito, funzionante e veloce in tutto Expo2015, altro miracolo davvero degno di nota) si possono catturare le immagini sul telefono. Non sono certo funzioni. Io l’ho scaricata sull’Ipad ma il supporto non entrava negli spazi previsti. Inutile anche l’intervento del gentilissimo personale giapponese.   La sala che ho più apprezzato è quella legata alla Tradizione. La parte sull’educazione alimentare andrebbe copiata in tutto il mondo.  L’ultima sala è sicuramente quella più divertente. Il ristorante virtuale del futuro merita da solo la visita al Padiglione:

All’esterno troverete numerosi ristoranti. Alcuni, come avrete letto, molto cari.

PALAZZO ITALIA

Qui sono le file a farla da padrone e potrebbero scoraggiare qualcuno. Nei giorni di massimo afflusso si può aspettare anche quattro ore.   Ma, a mio parere, è tempo ben speso. Palazzo Italia risulta infatti essere, anche architettonicamente, uno dei più belli di Expo e uno che mantiene il tema della nutrizione come collante delle varie sale (anzi, dei vari piani).   Il numero chiave di questo Palazzo è il 21, numero che rappresenta le nostre ragioni con in più Roma Capitale (in via Bellerio non avranno apprezzato). E così la prima sala (assolutamente la più renziana) mostra ventuno, spesso sconosciuti, personaggi di successo che rappresentano (anche fisicamente) il Made in Italy.  C’è poi un doppio passaggio dal caos di uno sviluppo senza regole (con i danni che esso provoca) alla bellezza del nostro paese. Le sale con le meraviglie naturali e artificiali che si possono trovare nel nostro paese sono davvero bellissime. E risultano il posto preferito per i selfie (gli specchi che campeggiano in tanti stand sembrano proprio un invito in tal senso). È decisamente il posto più affascinante di questo padiglione. Molto bella anche l’idea di mettere a contrasto musica moderna con particolari delle architetture e degli affreschi di tanti patrimoni dell’umanità che si trovano nello stivale.

L’ultimo piano gioca sul doppio senso del concetto di Vivaio (che è il tema del padiglione), visto sia come la ricchezza e la varietà della natura nel nostro Paese, sia sulla scommessa per le nuove generazioni. Cui davvero Palazzo Italia si rivolge. Lo stivale con le 21 piante tipiche (e con vista sull’Albero della vita) chiude il percorso.  Anzi, prima di andarsene è possibile firmare la Carta di Milano, il documento sul diritto al cibo che rappresenterà l’eredità di Expo. La possono firmare anche i bambini e ci sono sgabelli alla loro altezza. Alla fine si esce davvero soddisfatti. Uscendo, si possono anche ascoltare i concerti degli studenti dei conservatori italiani. Altro Vivaio non indifferente.

Avrete notato che ho parlato di Palazzo e non di Padiglione, perché il Padiglione Italia è l’intera area espositiva del Cardo. Tra i tanti spazi che si affacciano sull’affollaro viale, consiglio una sosta nell’Alto Adige-Sud Tirol con una struttura tutta in legno e tanto cibo invitante.  

PADIGLIONE UNIONE EUROPEA

Forse quello che mi ha sorpreso di più. Soprattutto perché è una istituzione contro cui tutti si divertono a fare il tiro al pallino. Non che spesso non ce ne sia ragione, ma ormai sembra diventato un vizio: quando non si sa con chi prendersela, si tira in ballo l’Europa. Il padiglione (che si affaccia sull’Albero della vita e sul Padiglione Italia) non è della Commissione o del Parlamento ma proprio dell’Unione dei 28 paesi. È il lavoro di sintesi va a mostrare proprio le peculiarità dell’Unione.   Il padiglione UE gira tutto intorno alla storia di Alex e Sylvia, i due protagonisti del cartone animato La Spiga d’oro:

La visione del video è in 4D e quindi piacerà anche ai più piccoli. Il messaggio che passa è che l’unione non solo fa la forza, ma permette di avere cibo sano a disposizione di tutti.  Dopo il film sono molto belli e interessanti anche i pannelli interattivi in cui si può vedere cosa fa l’Unione europea e ci si può preparare un panino virtuale.

 Insomma, un padiglione che piacerà anche ai più piccoli.

PADIGLIONE COLOMBIA

Ecco un’altra piacevole sorpresa di Expo2015. Il Padiglione sul paese latino-americano è sicuramente quello fatto con maggiore cuore e passione. Ogni paese ha cercato di portare a Milano la migliore rappresentazione di sé. La Colombia ha cercato di mettere in mostra quello che pochi conoscono: è uno dei paesi con la maggiore biodiversità. Un paese fortunato come recita una bella scritta all’ingresso.

 
Una biodiversità che non si sviluppa in larghezza ma in altezza. Di qui la scelta di sale nelle quali vengono mostrati i diversi microclimi presenti nel Paese. E dove di può prendere un ascensore virtuale che mostra il passaggio dai 5.000 metri del picco Cristóbal Colón fino al mare. Davvero suggestivo. Ma questo padiglione, come tutti, ha all’uscita dei locali dove si possono assaggiare le prelibatezze del Paese, in questo caso colombiane. 

Essendo un caldo pomeriggio estivo abbiamo optato per le bevande. Ne abbiamo presi di tre tipi diversi: succo di Tomate de Arbol, Lulo e Aguapanela. Personalmente quest’ultimo è quello che mi è piaciuto di più, anzi, che mi ha più dissetato.  Non paghi dei succhi, abbiamo voluto provare anche il famoso Cafè de Colombia. A turno ne vengono servite due qualità, una più forte l’altra meno. E ci siamo fatti spiegare le caratteristiche di questo prodotto tipico:

Li abbiamo provati entrambi. Diversi e molto buoni. Da assaggiare per capire che il caffè non è una tradizione solo nostra.

PADIGLIONE NEPAL

Non ci sono lunghe code da fare per questo padiglione che è tutto in salita, come è giusto che sia. È stato uno degli ultimi ad aprire non per ignavia di chi lo guida ma per il terremoto che l’ha colpito.  Arrivati in cima girerete intorno a un Budda, davanti al quale ci sono ciotole piene di offerte. Di fatto nono c’è molto da vedere, ma il tutto fa pensare, fa riflettere sulla caducità della vita.  Il tutto è accompagnato da suoni e bandierine tibetane. Davvero una esperienza toccante.

Sotto il Padiglione c’è un ottimo self-Service che con solo 15 euro vi fa assaggiare tutte le specialità nepalesi. Da testare.  

LA SPESA DEL FUTURO

Se il Padiglione del Giappone mette in mostra il ristorante del futuro, la Coop mostra come sarà il supermercato prossimo venturo. 

 Su una enorme superficie, a più livelli sono in vendita tantissimi prodotti (per lo più a marchio Coop, ovviamente). La cosa davvero stupefacente è che basta indicarli per fare apparire infografiche animate nelle quali viene specificata la provenienze e le caratteristiche dei vari prodotti.

Ah, i prezzi sono davvero a buon mercato.

PADIGLIONE QATAR

Qui la coda è relativamente breve e ne vale la pena. Perché è un padiglione che ha centrato l’obiettivo del cibo.  

Molto interessante la presentazione della tavola imbandita, ma in generale tutto il percorso ti fa capire quale filosofia ci sia dietro questa cucina.   

PADIGLIONE ESTONIA

Poca coda ed elevata resa anche per questo spazio baltico che si trova appena di fianco al gigantesco padiglione russo. Qui è tutto in legno, persino l’altalena, e tutto dedicato a cibo e natura. Al piano superiore si può sedersi nel verde ascoltando il suono degli uccellini.  

PADIGLIONE ZERO

Tornando al punto di partenza, non perdete il Padiglione Zero dell’Onu. Noi l’abbiamo visitato alle 17.30 e abbiamo fatto solo dieci minuti di coda. Si viene accolto da un cantante lirico e poi si entra in un salone dove ci si immerge a vita agreste. Davvero suggestivo.  

La cosa più bella ed istruttiva rimane la parte dedicata allo spreco di cibo.

 
Non perdetevi prima di uscire di vedere il (bel) filmato sul Banco Alimentare.

PADIGLIONE IRAN

È ben fatto e con scarsa cosa anche il padiglione iraniano. Come tanti qui a Expo si concentra sul riso, principale alimento di molti paesi.

Molto bello lo spettacolo di musica e danze cui abbiamo assistito nel tardo pomeriggio:

  
PADIGLIONI CHE A MIO GIUDIZIO SI POSSONO EVITARE

In primis quello dello Turkmenistan che non solo è una mera esibizione del corpo del dittatore, ma che pure con il cibo centra poco. Al primo piano vengono messe in mostra le pipeline del gas. Surreale.  

Altro padiglione che non vale la coda è quello dell’Austria. Si passeggia in un bel bosco. Fa più fresco che altrove, ma alla fine non ti lascia niente se non la domanda: come nutriamo il pianeta? Mangiando corteccia. Carino solo lo slogan all’ingresso.

 Poca coda e poca soddisfazione anche nel grande Padiglione della Cina. La prima parte è dedicato alla Cina rurale, con belle foto. La seconda a un fuoco di luci e colori. Che senza spiegazione si perdono via come un bicchier d’acqua. Peccato. Dicono siano buoni i ristoranti, ma abitando a China Town, ho tranquillamente aggirato la cosa. È comunque uno dei padiglioni più bello fuori che dentro.  

Anche la Slovacchia si può tranquillamente saltare. Sono entrato e uscito senza che mi sia rimasto attaccato alcun ricordo.

Chiudo su Israele. Il padiglione è bello. Ma la scelta di incentrarlo tutto sul racconto di una bella conduttrice tv (Moran Aitas) me lo fa declassificare tra quelli per cui non vale la pena fare la (lunga peraltro) coda.

  
Molto bello invece il giardino verticale esterno.

  
Ad maiora

L’incolore

In ogni caso, era diventato un individuo chiamato Tazaki Tsukuru. Prima non esisteva, era soltanto una bruma anonima sul far dell’alba. Un malloppo di carne rosa che pesava meno di tre chili, piangeva e respirava malapena nell’oscurità. Gli era stato imposto un nome e solo dopo si erano generate la coscienza e la memoria, e da lì si era formato il senso di sé.
Il suo nome era stato l’inizio di tutto.
Murakami Haruki, L’incolore Tazaki Tsukuro e i suoi anni di pellegrinaggio, Einaudi 2014 (traduzione Antonietta Pastore)

Józu desu ne!

I giapponesi amano profondersi in elogi inutili a favore degli occidentali. Se un occidentale riesce a mangiare con i bastoncini, loro gli fanno i complimenti per l’eccellente coordinazione oculomanuale; se riesce a intercettare un pop fly debole nel campo di sinistra, riceverà elogi per la su abilità sportiva; se impara a dire ciao in giapponese, verrà lodato per la pronuncia fluente e così via. La frase ricorrente in questi casi è józu desu ne!, che significa: “Ehi amico, sei proprio bravo!”, ma che si potrebbe tradurre in: “Niente male, per mio così scemo”.
L’esempio più rappresentativo del significato di józu desu ne! è il modo in cui la mia vicina di casa insegnò al figlio di cinque anni ad andare in bicicletta. Fregandosene delle rotelle lo piazzava su una bici e lo spingeva giù per il via letto d’accesso, dove lui capitombolava inesorabilmente andandosi a schiantare contro un albero oppure sbanda a e cadeva faccia a terra. Dopo poche lezioni, il bambino era ridotto a uno straccio, le ginocchia sbucciate e i gomiti ammaccati. Lui però continuava a provarci, ogni volta tirando su col naso per soffocare le lacrime. Comodamente seduto al tavolo della cucina a sorseggiare caffè, mi divertii per ore a osservare i progressi del piccolo Taro. Applaudivo le sue cadute più acrobatiche. Ogni volta che ripartiva alla carica, sua madre non mancava mai di urlargli – nei brevi istanti in cui riusciva a mantenere il controllo – “Józu desu ne!”. Dopodiché si schiantava. E poi di nuovo. E ancora. Ogni volta che qualcuno in Giappone loda il mio livello di padronanza della seconda lingua esclamando “Józu desu ne!”, ripenso al piccolo Taro sulla bicicletta, lanciato senza controllo verso il disastro. Così mi mantengo umile.
Will Ferguson, Autostop con Buddha, Feltrinelli, 2007