Avetrana

Se in tv si dibatte su cosa mangiò Sarah

Ritengo Chi l’ha visto una buona trasmissione e sono molto legato a Federica Sciarelli.

Per chiunque abbia un parente scomparso nel nulla, ha rappresentato e rappresenta una valvola di sfogo e spesso una scialuppa di salvataggio.

A quanti criticavano la diretta nella quale la madre di Sarah Scazzi apprese della morte della figlia, facevo presente che – senza quella tramissione – su molti casi di cronaca i riflettori della cronaca e (ahinoi) della giustizia si sarebbero spenti. Uno su tutti quello di Elisa Claps, trovata, 17 anni dopo la morte, in una chiesa di Potenza.

La trasmissione si sta però trasformando in un programma che sembra sempre più concentrarsi sugli aspetti giudiziari.

Sarah Scazzi non è più una ragazza scomparsa. E’ stata purtroppo assassinata e la giustizia sta facendo il suo corso. Non si capisce quindi perché, quel programma continui a occuparsi del caso.

O meglio, lo si capisce per alcuni aspetti: come quello, mandato in onda ieri, di trovare testimoni che possano chiarire i tanti misteri del caso di Avetrana.

Ma quando, sempre ieri, un servizio si focalizza su cosa e a che ora Sarah abbia consumato il suo ultimo pasto, se un sofficino o parte di esso, alle 12.45 o dopo, per stabilire l’ora della morte, evocando anche la possibile riesumazione del corpo, si superano i confini.

Chiunque abbia seguito un processo sa che i confonti tra i periti sono molto complessi e sono appunto confronti tra esperti. Non ho mai sentito di giornalisti chiamati alla sbarra nel confronto peritale. Soprattutto nei processi per omicidio volontario.

E credo che anche trasmissioni del servizio pubblico debbano porsi l’interrogativo su cosa mandare in onda e perché.

Ad maiora.

Carlo Rivolta, travolto dal riflusso

Un regista dovrebbe farci un film, scrive Concetto Vecchio nell’introduzione di questo bel libro di Andrea Monti “Travolto dal riflusso”, dedicato al collega Carlo Rivolta, ucciso dalla droga a soli 32 anni. Sarebbe un film in bianco e nero, temo, vista la distanza tra il giornalismo di oggi e di allora. E visto che in una redazione moderna, come ricorda giustamente la madre di Rivolta, invece di stordirsi con l’eroina, forse – strafatto di coca – Carlo potrebbe anche fare carriera.

Giornalista di sinistra, da Paese sera a Repubblica, da Lotta continua a Il manifesto, Carlo Rivolta ha seguito tra gli anni Settanta e Ottanta la fine del movimento studentesco, venendo appunto “travolto dal riflusso”. Attaccato da destra e da sinistra per le sue cronache sulle manifestazioni (che trovate nel volume edito da Ets) Rivolta finisce isolato anche nella sua redazione. Come scrive Andrea Monti, «un giornalista serio non adatta la realtà alle proprie opinioni politiche», anche se lo stesso Rivolta – in un’intervista testamento pubblicata da Prima comunicazione – dirà: «Certo non ero obiettivo, ma non penso si possa esserlo».

Affronterà anche la gioventù che rifiuta il riflusso e si butta nel terrorismo, ormai al capolinea. Un Rivolta che critica le pressioni incrociate cui era sottoposto: «Posso scegliere di cedere o di sfidare chi mi minaccia, in tutti e due i casi non sarà una scelta libera».

Viene anche minacciato dagli estremisti di sinistra («Ci si abitua a pensare a se stessi come persone che vivono guardando il faccia l a morte») ma sarà alla fine ucciso proprio dalla droga, che gli darà spunto anche di racconti “autobiografici” sulla vita dei tossici, sempre a caccia di roba buona.

Nel libro, Monti raccoglie anche le testimonianze di amici, parenti e colleghi come Gad Lerner («Allora ci sentivamo soprattutto militanti, interpreti del movimento, non professionisti») o Giampaolo Pansa («Un giornalista mai banale, in certi casi geniale, avidamente curioso dell’umanità, mai complice di un potente, mai al servizio di nessuno, neppure della propria carriera, non un burocrate dell’informazione ma un uomo che viveva attraverso i suoi articoli, e capace d’indignarsi, di soffrire e di piangere scrivendo»).

Ci sono anche considerazioni più critiche che ragionevolmente sarebbero state condivise dallo stesso Rivolta («Forse non sono adatto per questo mestiere»).

Un libro adatto a chi voglia intraprendere la professione di giornalista (come lo stesso autore del libro) dal quale mi sono appuntato tre frasi su questo mestiere che finiranno dritte dritte nel mio elenco di massime. La prima riguarda le prove di concerto alle quali partecipa anche chi scrive: «Bisogna rassegnarsi a suonare musiche a comando: con il proprio stile, certo, la propria interpretazione. Puoi rivoltarti, ma allora o produci cattiva musica o rendi indigeribile l’orchestra. O ci stai o non ci stai. La cosa grave e’ che non ti fanno suonare se sei bravo o no, ma se dici sì al direttore d’orchestra».

La seconda mi ricorda molto il mio mito russo: «In che cosa può consistere l’onestà di un giornalista? Nel riferire esattamente ciò che vede, nel tentare cronache puntuali, nel non accettare imposizioni esterne rispetto al suo lavoro».

La terza è più che mai di attualità in questi giorni post-Avetrana: «Si misura lo spessore umano di un giornale da come dà la cronaca, se fa a brandelli la gente o cerca di aiutarla».

Ad maiora

Andrea Monti

Travolto dal riflusso

Edizion ETS

Pisa, 2010

Euro 13

 Con Rosi Brandi e Daniele Biacchessi presenteremo il libro di Andrea Monti su Carlo Rivolta il 21 ottobre (ore 21) al Circolo Arci Métissage via De Castilla 8 (Milano)

Applausi per Sarah

Applausi tra le campagne di Avetrana al rinvenimento del corpo. Applusi all’arrivo della salma di Sarah Scazzi alla camera ardente. Applausi anche alla comparsa della madre della ragazza.

Non si capisce perche’ nel nostro Paese non si riesca a gestire il dolore in silenzio. Si applaude ai funerali, in chiesa. Ma anche nel minuto di silenzio allo stadio.
Come se non fossimo capaci di affrontare, in silenzio, la sofferenza. Come se dovessimo sguaiatamente condividere anche questi momenti.

Come  in uno studio televisivo, grande quanto la Penisola. Senza neanche bisogno dell’assistente di studio che faccia la claque.

Eppure si dovrebbe battere le mani solo in segno di approvazione. E invece lo si fa per sentirsi un po’ tutti uniti. Per compattarsi nei momenti difficili.
Forse, e’ un modo per reagire.
Come scrive il grande Amos Oz, “se non ti restano più lacrime per piangere, non piangere. Ridi”.
O applaudi.

Ad maiora