Comunicazioni

Riflessioni random sulla comunicazione. Radio televisiva e no.

Il cellulare speditomi da McGill di Better Call Saul

Better Call Saul, seconda stagione e un cellulare a casa…

Dopo un tweet nel quale avevo annunciato di aver finito la visione della prima stagione di Better Call Saul, ero stato contattato dalla Netflix (società americana che offre un servizio di streaming in abbonamento e che ha prodotto questa serie). Avevano quindi il mio indirizzo di casa, ma ieri quando il portinaio mi ha dato una anonima busta che conteneva a sua volta un sacchetto con dentro un (vecchio) cellulare (con tanto di caricatore) mi sono fatto mille domande. Ho pensato che fosse una storica vendita di Ebay andata a male o un segnale in codice di qualcuno che mi voleva annunciare qualcosa. Che non capivo.

Il cellulare era dotato di sim e quindi ho provato a chiamarmi per vedere se avevo il numero in memoria. Niente.

Scorrendo la rubrica trovavo un solo numero, quello di Jymmy M. McGill e allora mi è venuta l’illuminazione: è l’avvocato protagonista della serie Better Call Saul! Solo a quel punto riprendevo la busta e scoprivo che al suo interno c’era una lettera proprio dell’avvocato che mi diceva che da ora in poi ci saremmo sentiti grazie a questo telefono “più sicuro”. Bingo!

La lettera di McGill di Better Call Saul

Non contento (e disubbidendo volutamente alle indicazioni della missiva)  ho chiamato il numero dell’avvocato ed è scattata una meravigliosa segreteria telefonica.

A quel punto il mistero era risolto… È una strategia marketing della Netflix per lanciare la seconda serie di Better Call Saul la cui prima puntata è stata caricata proprio oggi anche in Italia.

Sentirlo in italiano è abbastanza devastante, ma per fortuna Netflix offre l’opportunità di sentirlo in lingua originale (anche coi sottotitoli).


Nel frattempo il cellulare “sicuro” continua a fare il suo mestieri. McGill stamattina mi consigliava di rimanere lontano dai problemi.

L'ultimo messaggio di McGill di Better Call Saul
E sto cercando di rispettare queste indicazioni. Stasera comunque passerò sicuramente 47 minuti in sua compagnia…
Ad maiora

La Televisione che insegna a vivere

La televisione amica, cui chiedere consigli

Ho da poco smesso l’insegnamento universitario, ma  – anche per il lavoro che faccio – continuo a osservare in modo critico il mondo televisivo. E, come avete visto in questi giorni, continuo a scriverne. E pure a leggerne. E’ il caso di questo interessante volume di Nicolò Barretta e Maria Elisabetta Santon su alcuni programmi televisivi che stanno prendendo sempre più piede grazie alla moltiplicazione dei canali creatasi col Digitale Terrestre.

“La televisione che insegna a vivere” spiega in modo semplice come l’elettrodomestico più amato dagli italiani (abbiamo record di ore di tv accesa, in media) stia diventando da mero strumento di compagnia e intrattenimento a qualcosa di più: all’amico a cui chieder consiglio. I programmi factual, tutorial, coaching di cui scrivono Nicolò Barretta e Maria Elisabetta Santon sono per lo più format americani adattati ai nostri contesti sociali, ma con buoni successi di ascolto e anche con forti risparmi da parte delle emittenti tv: “In un periodo in cui la crisi economica non risparmia neppure il settore televisivo, anche per la televisione generalista diventa importante disporre di contenuti caratterizzati da una lunga seriali e dunque, potenzialmente, in grado di innescare dinamiche di fidelizzazione, ma che implichino costi decisamente più contenuti rispetto alla fiction o ai tradizionali prodotti d’intrattenimento. Lifestyle e coaching rispondono esattamente a questa esigenza. Innanzitutto essi possono sfruttare il vantaggio di cui godono tutti i people show, ossia limitare il budget altrimenti destinato ai cachet di volti celebri, rendendo protagonista la gente comune”.

Sono gli effetti della transtelevisione i cui albori sono da far risalire al Grande Fratello, trasmissione che ha influenzato non solo i palinsesti televisivi, ma anche quelli politici. Si chiacchiera ininterrottamente senza valutare quel che si sta facendo, senza sforzarsi di scavare, come sottolinea giustamente Gian Paolo Parenti nella sua prefazione: “L’insistenza sul come fare le cose, evita di riflettere sul che cosa si sta facendo. Le regole pratiche per organizzare la cerimonia di nozze o un’indimenticabile cena per gli amici esentano dal parlare del senso del matrimonio e dell’amicizia, allontanando dal nodo dei bilanci esistenziali, spostano il fuoco dell’attenzione sul piano psichico (la profondità) a quello tecnico, rinforzando l’autorevolezza della tv come dispensatrice di norme operative (“Ipse dixit!”). Dal punto di vista editoriale, insomma il coaching è un grande vantaggio, tanto più che il pubblico gradisce e sembra preferire. Certi temi, certe profondità, infatti, sarebbero spinose pure per i telespettatori, inoltre – come insegnano le terapie antipanico o antinevrosi – concentrarsi sul modo di fare una cosa, allontana dalla cosa stessa e dalla paura che essa fa”.

Il tutto sembra vero, ma in realtà fa parte di quella immensa fiction nella quale è inserito lo spettatore televisivo, una sorta di Truman Show del quale non si vedono i confini (ma se alzate gli occhi al cielo di telecamere ne vedete eccome). Scrivono ancora Barretta e Santon: “A una prima analisi, sembrerebbe di poter affermare che i programmi di coaching propongono un’esperienza nel vero senso della parola: un percorso che porta a un cambiamento. A ben vedere, tuttavia, il potenziale trasformativo viene compromesso nel momento in cui diventa scontato che il percorso terminerà con un lieto fine”.

Parecchi i programmi analizzati dai due studiosi. Le critiche che secondo me hanno colto più nel segno riguardano Sex Therapy e Sos Tata. Sul programma a tematica sessuale, l’approfondimento è azzeccato perché spiega come questa serie sfonda un tabù e perché dimostra che la tv ha ormai occupato ogni spazio di casa: “Il fatto che quelle che si rivolgono al programma siano coppie “normali”, che non soffrono di gravi patologie per le quali l’intervento di un sessuologo risulterebbe indispensabile, mette in luce quanto, nella società contemporanea, l’aiuto degli esperti venga ricercato in modo massivo. Molti individui sentono il bisogno di appoggiarvisi per poter affrontare tutte le questioni che riguardano la quotidianità; questo meccanismo non risparmia evidentemente anche gli aspetti più intimi. In fondo è proprio sulla base di queste considerazioni che si può parlare di “cultura terapeutica” come una tendenza sempre più pervasiva del nostro tempo”.

Su Sos Tata perché al di là dell’aiuto a svolgere una delle professioni più complesse del mondo (quella genitoriale) la scelta dei protagonisti ha ambizione di essere la più rappresentativa possibile: “Generalmente i genitori che si rivolgono al programma rispecchiano, per così dire, l’italiano medio: svolgono professioni comuni come l’impiegato, l’operaio, il commerciante; nel caso delle mamme, le casalinghe. Vivono in abitazioni non particolarmente lussuose, ma linde, spaziose e gradevoli; si dividono tra la cura della famiglia e le attività extradomestiche. Sono dunque persone con cui lo spettatore è tendenzialmente portato a identificarsi”.

Sono gli stessi meccanismi che stanno dietro tanta informazione radio-televisiva, dietro la spettacolarizzazione di troppi casi di cronaca nera (a scapito ad esempio delle tematiche internazionali: parliamo per giorni di un delitto e il giorno dopo ci siamo già dimenticati la strage di Giakarta). L’immedesimazione, l’identificazione di cui parlano Barretta e Santon putroppo è uscita dai programmi fiction ed è entrata in quelli giornalistici. Dove si utilizza, solo per fare un esempio, sempre più spesso il nome di battesimo delle vittime per farle sentire più vicine a noi, per far scattare quella solidarietà parentale o al più amicale senza la quale, altrimenti, si rischierebbe di far scivolare via certe notizie.

Ad maiora

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Nicolò Barretta e Maria Elisabetta Santon

La televisione che insegna a vivere

Unicopli

Milano 2014

Esecuzione

La parola esecuzione, divenuta nel linguaggio dei nostri media espressione normale per indicare “assassinio a sangue freddo, commesso colpendo la vittima a distanza ravvicinata”.

È un fatto grave, non per ragioni di bon ton stilistico ma per ragioni di etica dell’informazione, ragioni a cui i giornalisti italiani appaiono sempre meno sensibili.

La difesa del professionista del settore che usa il verbo giustiziare, il sostantivo esecuzione e tante altre espressioni simili è: “ma io li uso tra virgolette”. Dunque con un distanziamento (forse) ironico, che permetterebbe di considerare questo un semplice espediente di stile, uno di quelli che servono ad “animare” e “vivacizzare”.

Si osservi però che ormai, nel testo della notizia a stampa, le virgolette intorno a giustiziare, esecuzione, ecc., se mai vi sono state, sono da tempo scomparse. Senza contare il fatto che, nelle notizie del tg le virgolette – se pure vi fossero nel testo – non potrebbero comunque essere trasmesse, così che l’ascoltatore le percepisce.

Quel che il lettore-ascoltare delle notizie italiani oggi percepisce è presto detto: la notizia ha assunto, in questo caso, il linguaggio della delinquenza. Dal gergo dei terroristi i giornali italiani hanno assunti usi linguistici oggi diventati normali. Con questi usi linguistici si ottiene un effetto di punto di vista inevitabile.

La notizia sul delinquente (e sui suoi delitti) viene detta (almeno in parte) con le parole del delinquente, ovvero, assumendo (almeno in parte) il suo punto di vista.

Michele Loporcaro, Cattive notizie, Feltrinelli

Le parole sono importanti, diceva qualcuno in “Palombella rossa”…

Ad maiora

Balle

Da tutte le parti fioccavano le notizie in Europa e io facevo la figura dell’imbecille.

A me non importava un fico secco se il signor Belcredi, come tanti, inganna i lettori, travia l’opinione pubblica, tradisce la fiducia del suo giornale; ognuno intende il proprio mestiere come meglio crede.

Quello che mi importa è che chi rimane danneggiato dalle sue “balle” sono coloro che – come me – intendono fare il proprio dovere onestamente, scrupolosamente.

Io debbo quindi essere sembrato bene inattivo e male informato, e questo non era vero.

Una riga di verità costa sempre molta più fatica di un volume di invenzioni.

Luigi Barzini Senior, lettera al direttore del Corriere Albertini dalla Cina, 1901

(tratto da I Barzini,  tre generazioni di giornalisti, una storia del Novecento, Mondadori).

Ad maiora

L’Infotainment in televisione: dalla tv del dolore a un giornalismo consapevole

Come è cambiato il ruolo della tv nel nostro paese: da quello educativo (del sempre citato Maestro Manzi) a quello per lo più incentrato sull’intrattenimento. Di questo si occupa la tesi di laurea specialistica di Elisabetta Pistoni in discussione oggi all’Università degli studi di Milano.
La laurenda ha analizzato gli esordi dell’elettrodomestico, il cui ruolo ha cominciato a cambiare anche prima dell’arrivo della tv commerciale, già ai tempi della tragedia di Vermicino (la diretta che diede il là alla tv del dolore, mai più tramontata). Con il moltiplicarsi dei canali e dei programmi di “approfondimento” la situazione è andata peggiorando.

La Pisoni nelle parti finali del lavoro cita, per sollevare un po’ e sorti della categoria, giornalisti icone – Indro Montanelli, Enzo Biagi, Tiziano Terzani e Ryzard Kapuscinski – dei quali purtroppo dobbiamo però parlare al passato.
Ad maiora