Ho da poco smesso l’insegnamento universitario, ma – anche per il lavoro che faccio – continuo a osservare in modo critico il mondo televisivo. E, come avete visto in questi giorni, continuo a scriverne. E pure a leggerne. E’ il caso di questo interessante volume di Nicolò Barretta e Maria Elisabetta Santon su alcuni programmi televisivi che stanno prendendo sempre più piede grazie alla moltiplicazione dei canali creatasi col Digitale Terrestre.
“La televisione che insegna a vivere” spiega in modo semplice come l’elettrodomestico più amato dagli italiani (abbiamo record di ore di tv accesa, in media) stia diventando da mero strumento di compagnia e intrattenimento a qualcosa di più: all’amico a cui chieder consiglio. I programmi factual, tutorial, coaching di cui scrivono Nicolò Barretta e Maria Elisabetta Santon sono per lo più format americani adattati ai nostri contesti sociali, ma con buoni successi di ascolto e anche con forti risparmi da parte delle emittenti tv: “In un periodo in cui la crisi economica non risparmia neppure il settore televisivo, anche per la televisione generalista diventa importante disporre di contenuti caratterizzati da una lunga seriali e dunque, potenzialmente, in grado di innescare dinamiche di fidelizzazione, ma che implichino costi decisamente più contenuti rispetto alla fiction o ai tradizionali prodotti d’intrattenimento. Lifestyle e coaching rispondono esattamente a questa esigenza. Innanzitutto essi possono sfruttare il vantaggio di cui godono tutti i people show, ossia limitare il budget altrimenti destinato ai cachet di volti celebri, rendendo protagonista la gente comune”.
Sono gli effetti della transtelevisione i cui albori sono da far risalire al Grande Fratello, trasmissione che ha influenzato non solo i palinsesti televisivi, ma anche quelli politici. Si chiacchiera ininterrottamente senza valutare quel che si sta facendo, senza sforzarsi di scavare, come sottolinea giustamente Gian Paolo Parenti nella sua prefazione: “L’insistenza sul come fare le cose, evita di riflettere sul che cosa si sta facendo. Le regole pratiche per organizzare la cerimonia di nozze o un’indimenticabile cena per gli amici esentano dal parlare del senso del matrimonio e dell’amicizia, allontanando dal nodo dei bilanci esistenziali, spostano il fuoco dell’attenzione sul piano psichico (la profondità) a quello tecnico, rinforzando l’autorevolezza della tv come dispensatrice di norme operative (“Ipse dixit!”). Dal punto di vista editoriale, insomma il coaching è un grande vantaggio, tanto più che il pubblico gradisce e sembra preferire. Certi temi, certe profondità, infatti, sarebbero spinose pure per i telespettatori, inoltre – come insegnano le terapie antipanico o antinevrosi – concentrarsi sul modo di fare una cosa, allontana dalla cosa stessa e dalla paura che essa fa”.
Il tutto sembra vero, ma in realtà fa parte di quella immensa fiction nella quale è inserito lo spettatore televisivo, una sorta di Truman Show del quale non si vedono i confini (ma se alzate gli occhi al cielo di telecamere ne vedete eccome). Scrivono ancora Barretta e Santon: “A una prima analisi, sembrerebbe di poter affermare che i programmi di coaching propongono un’esperienza nel vero senso della parola: un percorso che porta a un cambiamento. A ben vedere, tuttavia, il potenziale trasformativo viene compromesso nel momento in cui diventa scontato che il percorso terminerà con un lieto fine”.
Parecchi i programmi analizzati dai due studiosi. Le critiche che secondo me hanno colto più nel segno riguardano Sex Therapy e Sos Tata. Sul programma a tematica sessuale, l’approfondimento è azzeccato perché spiega come questa serie sfonda un tabù e perché dimostra che la tv ha ormai occupato ogni spazio di casa: “Il fatto che quelle che si rivolgono al programma siano coppie “normali”, che non soffrono di gravi patologie per le quali l’intervento di un sessuologo risulterebbe indispensabile, mette in luce quanto, nella società contemporanea, l’aiuto degli esperti venga ricercato in modo massivo. Molti individui sentono il bisogno di appoggiarvisi per poter affrontare tutte le questioni che riguardano la quotidianità; questo meccanismo non risparmia evidentemente anche gli aspetti più intimi. In fondo è proprio sulla base di queste considerazioni che si può parlare di “cultura terapeutica” come una tendenza sempre più pervasiva del nostro tempo”.
Su Sos Tata perché al di là dell’aiuto a svolgere una delle professioni più complesse del mondo (quella genitoriale) la scelta dei protagonisti ha ambizione di essere la più rappresentativa possibile: “Generalmente i genitori che si rivolgono al programma rispecchiano, per così dire, l’italiano medio: svolgono professioni comuni come l’impiegato, l’operaio, il commerciante; nel caso delle mamme, le casalinghe. Vivono in abitazioni non particolarmente lussuose, ma linde, spaziose e gradevoli; si dividono tra la cura della famiglia e le attività extradomestiche. Sono dunque persone con cui lo spettatore è tendenzialmente portato a identificarsi”.
Sono gli stessi meccanismi che stanno dietro tanta informazione radio-televisiva, dietro la spettacolarizzazione di troppi casi di cronaca nera (a scapito ad esempio delle tematiche internazionali: parliamo per giorni di un delitto e il giorno dopo ci siamo già dimenticati la strage di Giakarta). L’immedesimazione, l’identificazione di cui parlano Barretta e Santon putroppo è uscita dai programmi fiction ed è entrata in quelli giornalistici. Dove si utilizza, solo per fare un esempio, sempre più spesso il nome di battesimo delle vittime per farle sentire più vicine a noi, per far scattare quella solidarietà parentale o al più amicale senza la quale, altrimenti, si rischierebbe di far scivolare via certe notizie.
Ad maiora
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Nicolò Barretta e Maria Elisabetta Santon
La televisione che insegna a vivere
Unicopli
Milano 2014