Month: dicembre 2015

Scusa, senza se e senza ma

Siamo arrivati alla meta: La cazzata come fondamento del bon ton oggi vigente. Paradossale, trattandosi pur sempre di turpiloquio?

Sì ma fino a un certo punto: la volgarità residua della parola oggi è vista e vissuta soprattutto in senso positivo. “Ho fatto una cavolata” è un’alternativa troppo edulcorata, in cui la funzione di autoassoluzione sovrasta la funzione di ammissione. “Ho fatto una cazzata” significa invece: uno, ho commesso un errore; due, l’errore è circoscritto e non è troppo grave: ora che l’ho ammesso lo si potrà dimenticare e non farà curriculum; tre, l’amnesia può esser contestuale all’ammissione perché denuncio io stesso quanto ho fatto, con un linguaggio franco ed esplicito: non sono mica politicamente corretto, quando metto mano alla coscienza! Chi a questo punto, cioè dopo l’ammissione, insiste a biasimare praticamente passa dalla parte del torto. (…)

Si può dire che nel carattere italiano ci sta una certa riluttanza ad ammettere gli errori. Italia significa non dover dire mai “Mi dispiace”. A fronte dell’imbarazzante tambureggiare degli “I am sorry” britannici, infatti, chiedere  scusa a noi non viene affatto naturale. Tale riluttanza era tipica di Fonzie nella serie TV Happy Days, che non a caso portava il cognome italiano Fonzarelli, e al personaggio di Kevin Kline in Un pesce di nome Wanda, che non a caso parlava in italiano in certe intime situazioni.

Come per questi due campioni del più buffonesco machismo audivisivo, parrebbe che anche per noi i pochi fonemi che compongono la parola “scusa” rappresentino una difficoltà insormontabile. Casomai ci si scusa a gesti: un braccio levato in alto, come fanno i cestisti a cui è stato fischiato un fallo, o entrambe le braccia, piegate e levate al cielo, in un’attitudine prettamente sacerdotale mentre i muscoli del viso si atteggiano a cherubinica innocenza. Gesti che non significano solo o soprattutto “Scusa”. Stanno per: “Magari mi dispiace per te, ma io non c’entro nulla”. Cioè: “Prenditela col destino”; oppure, “Non ho mica il controllo del mio inconscio”.

Ora sarebbe probabilmente ozioso trarre conseguenze vastamente antropologiche e morali da simili piccolezze, ma indubbiamente una relazione con l’idea nazionale di Responsabilità ci deve pur essere. La prova rovesciata sta in quella caratteristica alluvione di “Scusi” e “Scusa” riservata a circostanze in cui non c’è proprio nulla di cui scusarsi; al cameriere: “Scusi, mi può portare il sale?”; al passante: “Scusi, sa dove c’è un’edicola aperta?”; e tutti gli “Scusa se te lo dico”; “Scusa se mi permetto”; “Scusa se insisto” sino allo “Scusa se esisto”, che andava di moda ancora pochi anni fa. Ma chi ti sbatte contro per strada e ti fa male o ti rovescia addosso un ombrello bagnato i cinque fonemi S C U S A non escono (per non parlare dei pedoni; l’italiano su un mezzo di trasporto qualsiasi, dallo skateboard al camion con rimorchio, ha una struttura morale che sfugge a ogni disciplina umanistica).

Sempre un passo avanti o un passo indietro dalla presa di responsabilità, ci si scusa per ottenere una mai troppo laica assoluzione, per preservare la buona intenzione dalla cattiva riuscita. La cosa da non fare mai, per nessun motivo, è dire solo “Scusa”: senza aggiunte, senza se e senza ma. Significherebbe ammettere e restare in attesa di un perdono liberatorio. Chi dice “Ho fatto una cazzata”, come abbiamo visto, perdona sé stesso ammettendo.

E’ la perfezione in terra, il reato che si trasforma nel suo stesso alibi.

Stefano Bartezzaghi

Anche meno

Mondadori, Milano, 2013

 

Ad maiora

 

Giappone, Corea e quelle scuse arrivate 70 anni dopo

Ci ha impiegato 70 anni il governo del Giappone a chiedere scusa al popolo coreano per quelle migliaia di donne che vennero costrette a prostituirsi per la gioia dei soldati nipponici. Durante la seconda guerra mondiale gli occupanti avevano obbligato molte ragazze a diventare “schiave del sesso”. In molti a Tokyo si difendevano dicendo che si trattava di “volontarie”. Mai visto donne che volontariamente si fanno violentare…

Chiunque sia stato in Corea (del Sud, in quella del Nord non credo sia il caso) sa come il problema fosse tuttora sentito e influenzasse negativamente i rapporti tra i due paesi asiatici. Quando siamo andati a visitare il  Trentottesimo parallelo, la guida – oltre a raccontarci le gesta dei presidenti “eterni” nordcoreani – ci raccontò delle schiave del sesso per i soldati giapponesi. Una ferita ancora aperta.

Ora, finalmente, le scuse ufficiali con la creazione da parte del governo giapponese di un fondo di un miliardo di yen per risarcire le donne vittime di quella assurda violenza.

Ad maiora 

Amicizia

L’amicizia! Quante forme diverse può avere…

Amicizia nel lavoro. Amicizia per la rivoluzione, amicizia durante un lungo viaggio, amicizia tra soldati, amicizia in una prigione in transito, dove ci si conosce e ci si lascia nel giro di un paio di giorni di cui, però, si serba il ricordo per anni. Amicizia nella gioia e nel dolore, amicizia nell’uguaglianza e nella diversità.

Che cosa rende amici? Avere lo stesso lavoro o uno stesso destino? A volte l’odio tra chi appartiene allo stesso partito e ha opinioni che si distinguono solo nelle sfumature è maggiore dell’odio verso chi del partito è nemico. A volte uomini che combattono assieme si odiano più di quanto odino un nemico comune. E a volte l’odio fra i detenuti è maggiore dell’odio verso i carcerieri.

Certo, l’amicizia nasce per lo più tra uomini accomunati da uno stesso destino, da una stessa professione, da un medesimo progetto, tuttavia sarebbe prematuro concludere che la si debba solo a tali affinità.

Perché possono essere amiche – e lo sono – anche persone unite dall’odio per il proprio mestiere. E amici non sono soltanto gli eroi di guerra e del lavoro, ma anche i disertori e gli assenteisti. Alla base dell’amicizia degli uni e degli altri, però, c’è un vincolo comune.

Due caratteri opposti possono diventare amici? Sicuro!

L’amicizia può essere un legame disinteressato. A volte l’amicizia è egoista, altre è incline all’abnegazione. Ma, per quanto suoni strano, l’egoismo dell’amicizia avvantaggia l’amico in modo disinteressato, laddove l’abnegazione ha un fondo egoistico.

L’amicizia è uno specchio in cui l’uomo si riflette. A volte, chiacchierando con un amico impari a conoscerti e comunichi con te stesso.

L’amicizia è uguaglianza e affinità. Ma l’amicizia è anche differenza e disparità. 

C’è un’amicizia operativa: negli affari, nell’azione, in un lavoro comune, in una comune lotta per la sopravvivenza e per un tozzo di pane.

E poi c’è l’amicizia in nome di un ideale, l’amicizia filosofica tra interlocutori che meditano, tra uomini che lavorano in modo diverso, ognuno per proprio conto, ma che insieme  parlano della vita.

Forse la forma suprema di amicizia abbraccia l’amicizia operativa, l’amicizia nel lavoro e nella lotta e l’amicizia di chi dialoga e si confronta.

Pur avendo sempre bisogno l’uno dell’altro, non sempre gli amici ricevono amicizia in egual misura. E non sempre all’amicizia chiedono la stessa cosa. Un amico può donare la propria esperienza, l’altro può arricchirsene. Ci si può scoprire forti e maturi aiutando un giovane amico debole e inesperto; costui, il debole, troverà nell’amico il proprio ideale di forza, maturità, esperienza. Dunque c’è chi dona e chi gode del dono ricevuto.

Capita che l’amico sia una figura silente, che per suo tramite si riesca a parlare con se stessi, a ritrovare la gioia dentro di sé, in pensieri che divengono chiari e visibili grazie alla cassa di risonanza del cuore altrui.

L’amicizia della mente, contemplativa, filosofica, esige di norma identità di vedute, ma tale identità può non essere assoluta. A volte l’amicizia si manifesta in una discussione, nella mancanza di affinità. Se invece gli amici si somigliano in tutto, se si rispecchiano, chi discute con un amico discute con se stesso.

L’amico è colui che ti perdona debolezze, difetti e vizi, che conosce e conferma la tua forza, il tuo talento, i tuoi meriti.

E l’amico è colui che, pur volendoti bene, non ti nasconde le tue debolezze, i tuoi difetti, i tuoi vizi.

L’amicizia si fonda dunque sulla somiglianza, ma si manifesta nella diversità, nelle contraddizioni, nelle differenze. Nell’amicizia l’uomo cerca egoisticamente ciò che gli manca. E nell’amicizia tende a donare munificamente ciò che possiede.

Il desiderio di amicizia è innato nella natura umana, e chi non è capace di farsi amici gli esseri umani opta per gli animali: cani, cavalli, gatti, topi, ragni.

Un essere dotato di forza assoluto non necessita di amici, ma un tale essere è Dio.

L’amicizia autentica non dipende dal fatto che l’amico sieda su un trono o dal trono sia stato deposto per finire in prigione: l’amicizia autentica guarda all’anima e alle sue doti e non si cura della gloria, della forza esteriore. 

Molteplici sono le forme dell’amicizia, vario il suo contenuto, ma una sola è la sua base, incrollabile: la certezza che l’amico non ti tradisce, che tu non lo tradirai. Splendida è pertanto l’amicizia in cui è l’uomo a essere fatto per il sabato. Là dove amici e amicizia vengono sacrificati in nome di interessi superiori, l’uomo dichiarato nemico dell’ideale superiore, che ha perso tutti gli amici, è comunque sicuro di non perdere un amico vero.

Vassilij Grossman, Vita e destino, Adelphi

Ad maiora

Idioti, sanguinari e malvagi

L’abbattimento del bestiame infetto richiede una certa preparazione: il trasporto, la raccolta nei macelli, l’intervento di personale qualificato, lo scavo delle fosse.

Chi aiuta le autorità portando le bestie malate al mattatoio o catturando gli animali in fuga, non lo fa perché odia vacche e vitelli, ma per istinto di conservazione.

Allo stesso modo, quando a finire macellati sono gli esseri umani, molti esseri umani, la gente non viene mai sopraffatta da un odio sanguinario per i vecchi, le donne e i bambini destinati allo sterminio. Per questa ragione anche la campagna per il massacro su larga scala di esseri umani abbisogna di una preparazione adeguata. L’istinto di conservazione non basta, occorre risvegliare nella massa la repulsione e l’odio.

Fu proprio in questo clima di repulsione e di odio che venne pianificato e compiuto lo sterminio degli ebrei ucraini e bielorussi. Tempo addietro, sempre risvegliando e aizzando la furia delle masse, su quelle stesse terre Stalin aveva già messo in atto la sua campagna di eliminazione di kulaki e lo sterminio dei seguaci di Trockij e Bucharin, sabotatori e deviazionisti.

L’esperienza insegna che, durante campagne simili, la maggioranza obbedisce ipnoticamente ai voleri di chi comanda. C’è, poi, una minoranza ristretta che fomenta l’iniziativa: idioti convinti, sanguinari e malvagi, oppure gente interessata al proprio tornaconto, ad appropriarsi di cose e case altrui o di posti vacanti. Sebbene atterriti dal massacro in corso, molti, quasi tutti, nascondono ciò che sentono non solo ai familiari, ma anche a se stessi, e riempiono le sale dove si illustrano le campagne di sterminio. E per quanto frequenti siano gli incontri e ampie le sale, la tacita umanità del voto non viene quasi mai violata. Ancora più raro è, ovviamente, il caso in cui, alla vista di un cane rabbioso, qualcuno decida di non distogliere lo sguardo dagli occhi supplichevoli dell’animale e di prenderselo nella casa in cui vive con moglie e figli.

Ma qualche esempio c’è stato, nonostante tutto.

Vassilij Grossman, Vita e destino, Adelphi

Ad maiora

Ernesto Pellegrini, dall’Inter al ristorante solidale

Concerto straordinario del maestro Ennio Morricone ieri sera alla Scala. Il coro e l’orchestra scaligera hanno eseguito magistralmente tante musiche da film che tutti noi conosciamo e che hanno fatto vincere a Morricone un Oscar alla carriera.La serata era dedicata a un altro personaggio che meriterebbe un Oscar alla carriera: Ernesto Pellegrini. L’ex presidente dell’Inter ha festeggiato con un migliaio di amici i 50 anni della società che ha fondato dal nulla: la Pellegrini Spa. L’azienda dell’alimentazione ha 8.000 dipendenti ed è stata presentata al pubblico, prima del concerto, con un bel video che aveva Gianfelice Facchetti come voce narrante (uno dei momenti più commoventi è stato il breve accenno fatto a suo padre).

Alla fine del video è intervenuto il patron Ernesto Pellegrini (75 anni a giorni, nonno a breve).

Poche parole di saluto e ringraziamento. A ricordare, plasticamente, che si può essere milanesi, imprenditori e cavalieri del lavoro senza rovinare l’immagine di queste tre categorie.

E il fatto che Pellegrini abbia aperto negli ultimi mesi Ruben, ristorante solidale per i nuovi poveri, dà idea della caratura del personaggio.

Ad maiora