Siamo arrivati alla meta: La cazzata come fondamento del bon ton oggi vigente. Paradossale, trattandosi pur sempre di turpiloquio?
Sì ma fino a un certo punto: la volgarità residua della parola oggi è vista e vissuta soprattutto in senso positivo. “Ho fatto una cavolata” è un’alternativa troppo edulcorata, in cui la funzione di autoassoluzione sovrasta la funzione di ammissione. “Ho fatto una cazzata” significa invece: uno, ho commesso un errore; due, l’errore è circoscritto e non è troppo grave: ora che l’ho ammesso lo si potrà dimenticare e non farà curriculum; tre, l’amnesia può esser contestuale all’ammissione perché denuncio io stesso quanto ho fatto, con un linguaggio franco ed esplicito: non sono mica politicamente corretto, quando metto mano alla coscienza! Chi a questo punto, cioè dopo l’ammissione, insiste a biasimare praticamente passa dalla parte del torto. (…)
Si può dire che nel carattere italiano ci sta una certa riluttanza ad ammettere gli errori. Italia significa non dover dire mai “Mi dispiace”. A fronte dell’imbarazzante tambureggiare degli “I am sorry” britannici, infatti, chiedere scusa a noi non viene affatto naturale. Tale riluttanza era tipica di Fonzie nella serie TV Happy Days, che non a caso portava il cognome italiano Fonzarelli, e al personaggio di Kevin Kline in Un pesce di nome Wanda, che non a caso parlava in italiano in certe intime situazioni.
Come per questi due campioni del più buffonesco machismo audivisivo, parrebbe che anche per noi i pochi fonemi che compongono la parola “scusa” rappresentino una difficoltà insormontabile. Casomai ci si scusa a gesti: un braccio levato in alto, come fanno i cestisti a cui è stato fischiato un fallo, o entrambe le braccia, piegate e levate al cielo, in un’attitudine prettamente sacerdotale mentre i muscoli del viso si atteggiano a cherubinica innocenza. Gesti che non significano solo o soprattutto “Scusa”. Stanno per: “Magari mi dispiace per te, ma io non c’entro nulla”. Cioè: “Prenditela col destino”; oppure, “Non ho mica il controllo del mio inconscio”.
Ora sarebbe probabilmente ozioso trarre conseguenze vastamente antropologiche e morali da simili piccolezze, ma indubbiamente una relazione con l’idea nazionale di Responsabilità ci deve pur essere. La prova rovesciata sta in quella caratteristica alluvione di “Scusi” e “Scusa” riservata a circostanze in cui non c’è proprio nulla di cui scusarsi; al cameriere: “Scusi, mi può portare il sale?”; al passante: “Scusi, sa dove c’è un’edicola aperta?”; e tutti gli “Scusa se te lo dico”; “Scusa se mi permetto”; “Scusa se insisto” sino allo “Scusa se esisto”, che andava di moda ancora pochi anni fa. Ma chi ti sbatte contro per strada e ti fa male o ti rovescia addosso un ombrello bagnato i cinque fonemi S C U S A non escono (per non parlare dei pedoni; l’italiano su un mezzo di trasporto qualsiasi, dallo skateboard al camion con rimorchio, ha una struttura morale che sfugge a ogni disciplina umanistica).
Sempre un passo avanti o un passo indietro dalla presa di responsabilità, ci si scusa per ottenere una mai troppo laica assoluzione, per preservare la buona intenzione dalla cattiva riuscita. La cosa da non fare mai, per nessun motivo, è dire solo “Scusa”: senza aggiunte, senza se e senza ma. Significherebbe ammettere e restare in attesa di un perdono liberatorio. Chi dice “Ho fatto una cazzata”, come abbiamo visto, perdona sé stesso ammettendo.
E’ la perfezione in terra, il reato che si trasforma nel suo stesso alibi.
Stefano Bartezzaghi
Anche meno
Mondadori, Milano, 2013
Ad maiora