Ripubblico, quattro anni dopo, la recensione che scrissi sul libro di Benedetta Tobagi.
Ad maiora.
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Sono cresciuto assieme (rectius, grazie) ad alcuni di quelli che Benedetta Tobagi chiama “altri orfani, fratelli acquisiti”: figli di vittime del terrorismo o della mafia. Devo gran parte della mia esperienza professionale a Nando dalla Chiesa, al “suo” mensile “Società civile”, grazie al quale ho iniziato l’unico mestiere che so fare. Gli sono stato accanto mentre, in campagna elettorale (ma anche prima) gli dicevano di tutto, lo insultavano. I figli dei morti dovevano stare al loro posto. Nelle commemorazioni ufficiali, silenti, al fianco delle autorità che distrattamente ricordano gli “eroi”. Ogni tanto anche ora.
Durante la battaglia elettorale contro Formentini (quanto sarebbe cambiata l’Italia se allora a Milano avesse vinto Nando?), conobbi un altro figlio di vittima del terrorismo, Mario Calabresi. Quando è uscito il suo libro sul padre (“Spingendo la notte più in là”) ci ho messo settimane a leggerlo, continuamente interrotto dal pianto. Lo stesso mi era capitato affrontando “Delitto imperfetto” di Nando al quale mi dedicai dopo averlo conosciuto e che tuttora considero una delle migliori inchieste giornalistiche, fatta col cuore e col cervello.
Ho avvicinato il libro di Benedetta Tobagi con meno timore. Non la conosco se non indirettamente. E’ venuta all’inaugurazione della Scuola di Giornalismo della Statale. Il master porta il nome di suo padre e io sono, immeritatamente, uno dei tutor che cercano di raccontare a trenta, tra ragazze e ragazzi, i segreti del linguaggio televisivo. Ciò malgrado, ho fatto tanta fatica a finire “Come mi batte forte il tuo cuore” (Einaudi, Torino, 2009). Come per il volume di Mario, dopo ogni capitolo, ho dovuto fermarmi un po’, far passare il magone, recuperare energie per affrontare il resto della salita. Ma è un libro ottimo da regalare, per chi voglia sfruttare questo periodo vacanziero senza mandare il cervello all’ammasso.
Ho l’abitudine di appuntarmi le frasi che mi colpiscono nei libri che leggo. Il testo di Benedetta esce dalla prova con decine di stelline, di asterischi, di miei appunti a matita e di sottolineature. Mi sembra che il suo obiettivo sia di raccontare più il Tobagi giornalista che il Tobagi socialista o sindacalista. In questi ultimi anni sono usciti molti libri sulla figura del collega (ucciso, il 28 maggio 1980, da un gruppetto di giovani, ricchi, rivoluzionari comunisti che volevano con questo assassinio accreditarsi agli occhi delle Brigate Rosse) più incentrati su questi ultimi aspetti. La Tobagi, invece, grazie all’archivio cartaceo fatto dagli appunti del padre (un “buon grafomane”), ne rievoca la figura, di un professionista attento e premuroso che si ispira alla figura di un direttore del Corriere, spesso dimenticato: Mario Borsa. Un liberale, Borsa, che spronava i colleghi in questo modo: “Dite sempre quello che è bene o vi par tale anche se questo bene non va precisamente a genio ai vostri amici: dite sempre quel che è giusto, anche se ne va della vostra posizione, della vostra quiete, della vostra vita. Ricordatevi sempre ciò che lo spirito dell’Imbonati diceva al Manzoni: non ti far mai servo/ non far tregua coi vili: il santo vero/ mai non tradir. Siate dunque indipendenti e inchinatevi solo davanti alla libertà, ricordandovi che prima di essere un diritto la libertà è un dovere”.
Nel volume di Benedetta Tobagi si scopre un “Walter” (a volte lo chiama per nome lei stessa) cronista pacato ma acuto, sereno anche di fronte al pericolo, pur non volendo fare l’eroe. Si sottolinea la sua capacità di concentrarsi ovunque si trovasse, il suo essere “giornalista sempre in servizio” come lo ricorda Giorgio Rumi, l’umanità con cui si relazionava con i giovani colleghi (nel caso raccontato, un altro dei miei “maestri”, Gianni Riotta). E si calca la mano sul suo modo di porsi verso gli altri, disponibilissimo ma esigente: “Sul lavoro era una macchina da guerra e pretendeva il massimo da tutti, tanto più da chi doveva farsi le ossa”. Una frase di Sciascia che riporta Benedetta è come una frustata per chi, come me, martella sui temi della responsabilità personale: “L’hanno ammazzato perché aveva metodo”.
Non si cerca la vittimizzazione, anzi si sottolinea come Tobagi fosse sempre felice e sorridente: “Il sorriso era l’indicatore di una serenità d’animo che a livello profondo – pare un miracolo – non perse mai”. Malgrado le dure battaglie sindacali interne al Corriere e all’Associazione lombarda dei giornalisti, malgrado l’offensiva piduista contro la Rizzoli (una copia della rivendicazione dell’omicidio fu ritrovata nella cartella di Gelli, fatto che – tra lo stupore della Tobagi – nessuno si prese la briga di vagliare al processo contro Marco Barbone e soci) (Marco Barbone, mi si conceda un’altra parentesi, ora lavora per la Compagnia delle Opere, per quel “pentimento” più cattolico che giudiziario che non gli ha praticamente fatto pagare il prezzo del suo terribile gesto) malgrado tutto, Walter Tobagi si aggrappava alla “propria integrità” per andare avanti sulla sua strada.
Lascio da parte i particolari più intimi che emergono dal volume: il golf rosso indossato da Bendetta il giorno dell’omicidio, il dolore del nonno socialista, rimasto solo a portare avanti la “parte civile” al processo, tanto preoccupato che la nipote si facesse del male maneggiando il “caso Tobagi”, l’orrore di “quella mattina in cui è morto da solo, impreparato, colpito a tradimento, di spalle”, per citare una delle frasi più dolorose del libro.
Lei invece affronta con questo libro il difficile rapporto con un padre che di fatto non ha mai conosciuto e che è stato brutalmente assassinato sotto i suoi occhi (la foto di lui senza vita e riverso sul marciapiede di via Salaino a Milano è coraggiosamente pubblicata in una delle ultime pagine). Prova a posizionarsi di fronte all’icona idealizzata che le appariva “irreale e irraggiungibile”. Cerca di spiegare il rapporto con la madre “austera e autoritaria”, molto religiosa, con la quale non parla praticamente mai di quel che è accaduto: “Il silenzio, gelido, disperato, imbarazzato, che cala su di me, oppure non mi si parla normalmente: molte parole senza parola”. Un passaggio che mi ha ricordato un libro pazzesco di Amos Oz – “Una storia di amore e di tenebre” – dove tra lui e il padre cala il silenzio sulla morte, suicida, della madre.
Nel libro è più volte citata la zona grigia. La stessa che ha assecondato il fascismo e ha allevato – grazie all’area di contiguità del “né con lo Stato né con le Br – il terrorismo in Italia (e chi parla oggi di cultura dell’odio e di strategia della tensione evidentemente era all’estero negli anni Settanta). La stessa che con l’ignavia accetta qualunque governo perché “o Francia o Spagna purché se magna”.
Benedetta Tobagi cerca di affrontare coraggiosamente anche il tema dei pentiti, la legislazione premiale che ha permesso agli assassini del padre di uscire subito di galera. La giustifica per la necessità di arrivare a smantellare le reti terroristiche (e mafiose). Ma chiede giustamente il diritto a non perdonare un Barbone che, come disse il suo legale nell’arringa conclusiva aveva “agito per motivi di particolare valore umano, sociale e morale”, perché “i terroristi non hanno mai agito per tornaconto personale, ma solo per utopia, cultura e ideologia, con disinteresse e a rischio della loro vita”. Parole che lasciano un senso di sconforto e di sbigottimento, anche ad anni di distanza.
Ci sono infine vari passaggi che concernono i rapporti con Craxi, con i socialisti che di questo martire fecero una bandiera, l’analisi del volantino troppo informato sui segreti del Corriere, la leggenda del “delitto annunciato”. Ma le polemiche, anche con la figlia dell’ex primo ministro socialista, hanno già occupato le pagine del quotidiani e quindi non potrei che aggiungere ovvietà.
Concludo con una citazione dello stesso Tobagi: “È il tragico paradossi dei terroristi: uccidono per dimostrare che sono vivi”. Valga per il collega quel che ripeto sulla Politkovskaja (uccisa, come Walter, con 5 colpi di pistola). È più vivo lui (anche grazie a questo bel libro) di quelli che l’hanno assassinato. Il suo ricordo resterà indelebile e vivo nella storia del giornalismo del nostro paese.
Benedetta Tobagi
Come mi batte forte il tuo cuore
Einaudi, 2009