Month: Maggio 2011

Anna Politkovskaja in redazione

Delitto Politkovskaja: un arresto, molte domande

“E’ STATO ARRESTATO RUSTAM MAKHMUDOV, PRESUNTO ASSASSINO DELLA GIORNALISTA RUSSA ANNA POLITKOVSKAYA, UCCISA NEL 2006. LO HA RESO NOTO IL LEGALE DELLA FAMIGLIA DELLA DONNA”.

La notizia appena battuta dalle agenzie è sicuramente vera. Ma sarà davvero lui il killer di Anna? I suoi fratelli ricordiamolo, nel primo processo, sono andati assolti (ora verrà ricelebrato).

E le prove del Dna sembravano scagionare qualunque membro della famiglia Makhmudov.

Staremo a vedere.

In ogni caso, se quello arrestato è davvero un killer, qualcuno lo avrà pure assoldato e pagarlo per uccidere la collega russa.

Chi è stato? E perché?

Domande per ora senza risposta.

Ad maiora

Giuliano Pisapia e il suo portavoce Maurizio Baruffi

Pisapia sindaco, una vittoria che viene da lontano

Che il tacito patto tra Milano e il centro destra si fosse spezzato personalmente ho cominciato a percepirlo il 6 novembre 2007, alla morte di Enzo Biagi. La camera ardente fu un flusso ininterrotto di persone.
A Biagi poi rifiutarono l’Ambrogino, dapprima perché morto – non per sua scelta! – troppo a ridosso della festa patronale. L’anno dopo perché ormai era troppo tardi.
Quando, insieme ad altri colleghi, regalammo noi alle figlie di Biagi un Ambrogino posticcio ristabilimmo un po’ quel legame tra Milano e uno dei suoi figli adottivi.
Un altro segnale di sfaldamento lo colsi in un avvenimento sempre al Circolo della Stampa. Il 6 maggio 2009, insieme a Vera Politkovskaja parlammo dell’albero fatto piantare al Giardino dei Giusti di Milano (grazie alla sottoscrizione dei cittadini e al lavoro di Gabriele Nissim). A quell’incontro partecipò Manfredi Palmeri, al tempo presidente del Consiglio comunale in quota Pdl. In sala gli chiesero conto del perché la maggioranza di centro destra stesse bocciando la Commissione antimafia (“la mafia a Milano non esiste” dicevano le autorità) e lui disse che l’avrebbe votata anche se fosse rimasto da solo. Due anni dopo Palmeri siederà in consiglio lontano dai colleghi (ora di minoranza) del Pdl.
Piccoli segnali di scollamento che denotavano grandi crepe. La principale delle quali è stata, a mio avviso, da imputare all’incapacità da parte della Giunta Moratti di ascoltare i problemi della città.
Intorno a Pisapia fin dalla vittoria al primo turno c’è stato un clima di attesa messianica. Che ora non potrà che crescere. Ma il neo sindaco non avrà la bacchetta magica e non potrà risolvere tutti i problemi di una città un po’ allo sbando.
Se continuerà ad ascoltare i cittadini, come ha fatto in campagna elettorale, il suo mandato da sindaco sarà comunque un successo.

Ad maiora

Ps. In queste ore di festeggiamenti, un pensiero non può che andare a mio padre, a Marco Berrini, Marco Formigoni e Beppe Cremagnani. Ovunque voi siate spero stiate brindando assieme. Mi mancate.

elsa k, spettacolo teatrale

El’sa (non è stata violentata)

EL’SA (non è stata violentata) è il mio primo testo teatrale che nasce da una collaborazione tra Annaviva e lattOria

Ecco di cosa si tratta:

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Due voci femminili, quella di El’sa e quella di Anna.

Due voci femminili “in assenza”, due evocazioni, corpi e voci della memoria e della Storia.

El’sa Kungaeva, giovane cecena di 18 anni, viene uccisa nella notte tra il 26 e il 27 marzo 2000, dopo essere stata rapita da una pattuglia di soldati russi guidati dal colonnello Yuri Budanov.

Anna Politkovskaja, giornalista russa, il 7 ottobre 2006 viene assassinata, sul portone di casa sua a Mosca, da ignoti, dopo essersi schierata contro il regime instaurato da Putin e aver condotto una battaglia in nome della libertà di informazione e in difesa dei diritti umani.

Di El’sa Kungaeva, del suo omicidio e della violenza consumatasi sul suo corpo si era occupata Anna Politkovskaja. Alle loro morti ne seguiranno altre. Altre inchieste. Altre voci.

Altri incontri tra la Storia collettiva e quella individuale.

Ad essere quindi rievocata nel testo non è soltanto la vicenda di El’sa, così come non è soltanto il lavoro di Anna Politkovskaja su quella vicenda: a ricrearsi, per frammenti, è la più ampia vicenda che riguarda il conflitto russo-ceceno e alcune fra le implicazioni politiche, sociali e umane di quel conflitto.

Lo stupro, avvenuto, presunto, consumato, sul corpo della ragazza è al centro del testo, non solo per le sue ripercussioni giudiziarie e politiche sugli alti gradi dell’esercito russo e nell’opinione pubblica, ma anche quale indice, sintomo di uno stato di cose entro il quale è costretta la popolazione civile cecena, in cui alle donne non è dato difendersi, in cui si è considerati nemici a priori, in cui “tutto è permesso”.

La possibilità di mantenere una dignità, la semplice dignità della vita umana, pare così crearsi nella forma della rimozione o in quella della memoria.

El’sa non dice, non afferma, non accusa. El’sa racconta, ricorda, rievoca.

Il corpo violentato di El’sa esiste quale simbolo dei soprusi di un intero popolo ma anche della forza della testimonianza, dell’importanza della ricostruzione della verità. Compito demandato al personaggio di Anna, dichiaratamente figura della giornalista uccisa.

Anna afferma, accusa, testimonia.

Coerentemente ai ruoli assunti in scena dalle due voci femminili, il tessuto verbale si crea attraverso l’incontro, l’accostamento, di fonti documentarie di vario genere (per le quali è presente una terza voce, l’unica maschile), frammenti dagli articoli della stessa Politkovskaja e momenti di originale invenzione drammaturgica.

El’sa e Anna, entrambe portatrici della propria verità e della propria tragedia, sono compresenti sulla scena ma non si parlano mai. Si evocano l’una con l’altra.

Ognuna con le proprie parole, con la propria consapevolezza e umanità, permette all’altra di raccontare e raccontarsi entro un impossibile dialogo fra morti.

Mettere in scena questo dialogo è fare del teatro il luogo deputato per la memoria attraverso una finzione che si fa cruda e amara rappresentazione del reale. E’ andare oltre i fatti accaduti per mettere in scena l’impossibile incontro tra due figure assenti. E’ fare del palcoscenico lo spazio del ricordo, della possibilità di una ricostruzione e ricomposizione della verità.

 Annaviva e lattOria – il progetto

Le associazioni Annaviva e lattOria si incontrano per una prima collaborazione nel marzo 2011, quando insieme organizzano e curano la serata di presentazione e lettura scenica di “Cardo Rosso” di Maddalena Mazzocut-Mis, testo teatrale ispirato ai fatti del teatro Dubrovka. Testo inedito e mai rappresentato di Andrea Riscassi, “El’sa (non è stata violentata)” nasce dall’idea di continuare tale collaborazione fra Annaviva e lattOria. Entrambe le associazioni, infatti, nei diversi e specifici ambiti di attività, l’informazione da una parte e il teatro dall’altra, dedicano il loro impegno e il loro lavoro ai temi della tutela dei diritti umani, della ricostruzione della memoria, della cultura quale veicolo privilegiato di testimonianza e riflessione sul presente.

Il testo verrà presentato in forma di lettura scenica.

ORA CERCHIAMO TEATRI DOVE RAPPRESENTARLO!!!!!!!!!

Contatti

Annaviva – Pamela Foti: pamela.foti@gmail.com

lattOria – Sara Urban saraurban@lattoria.it

www.annaviva.com

http://lattoria.it/

Mladic e Karadzic ai tempi della guerra di Bosnia

Dopo l’arresto di Mladic, le riflessioni di Luca Leone

Riceviamo e volentieri pubblichiamo queste riflessioni sull’arresto di Ratko Mladic. A scriverle Luca Leone, autore per Infinito edizioni, di “Bosnia Express. Politica, religione, nazionalismo, mafia e povertà in quel che resta della Porta d’Oriente” (2010), “Srebrenica. I giorni della vergogna” (2005), “Uomini e belve. Storie dai Sud del mondo” (2008).

Questo il sito della casa editrice: http://www.infinitoedizioni.it/index.php

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Mi sono chiesto non so più quante volte, negli ultimi sedici anni, come avrei reagito alla notizia dell’arresto di Ratko Mladic. Non ricordo in quante occasioni ho scritto di lui, in questi tre lustri; quante volte ho dovuto pronunciare il suo nome, nel corso o alla fine delle presentazioni dei miei libri.

Sono sempre stato certo che il suo arresto sarebbe stato più difficile di quello del suo sodale e socio del terrore, l’ex auto-proclamato presidente della ex auto-proclamata Repubblica Srpska di Bosnia (Rs), Radovan Karadzic.

Perché Mladic è a conoscenza di più segreti del mediocre poeta spiantato Karadzic; perché era lui il vero uomo di Slobodan Milosevic nel mattatoio bosniaco; perché era lui quello che incontrava, nella sua profonda rozzezza e tracotanza, gli inviati stranieri e i negoziatori che goffamente proponevano piani di pace a chi pensava solo ad affogare la multiculturalità bosniaca nel sangue dei musulmani di quelle parti. E a mettersi in tasca terre e risorse come conseguenza della più evidente e clamorosa aggressione bellica del secondo dopoguerra europeo.

Ora che hanno arrestato “il generale”, l’uomo dalla mediocre biografia che ha spedito indietro nel tempo di quarant’anni la Bosnia Erzegovina, radendola al suolo sia materialmente che culturalmente, invece della gioia a prevalere è il senso di spossatezza. E anche scrivere queste poche righe pare una fatica immensa.

La biografia di Mladic rappresenta bene l’uomo: nato il 12 marzo 1943 a Bozinovici, Erzegovina occidentale, il suo nome potrebbe essere rozzamente tradotto come Guerriero Giovane. Diplomatosi all’Accademia militare di Zemun, nel 1991, quando la Jugoslavia sta per esplodere è ancora uno dei tanti ufficiali del corpo Pristina, di stanza al confine tra Jugoslavia e Albania. Dopo aver appoggiato le rivendicazioni secessioniste dei serbi della Krajina in Croazia, nella primavera del 1992 è nominato comandante dell’esercito della Rs. Destituito dalle sue funzioni di capo di stato maggiore dell’esercito serbo-bosniaco nel novembre 1996, era ricercato per essere giudicato dal Tribunale penale internazionale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia (Tpi) dellAja con l’accusa di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. È stato l’ideatore e il realizzatore materiale del genocidio di Srebrenica, costato la vita a circa 10.700 persone con un cognome musulmano.

Una biografia mediocre come l’uomo, che solo grazie alla guerra e al bagno di sangue da lui stesso progettato e realizzato è riuscito a passare dal pantano del nulla alla storia. Come una sorta di piccolo, nuovo Adolf Hitler. Ma c’è chi si accontenta anche di questo.  

L’attesa dell’arresto è stata estenuante, fin da quando, negli anni successivi alla fine della guerra del 1992-1995, i soldati francesi e russi si voltavano dall’altra parte, pur di non arrestare il carnefice, protetto dall’esercito, dai servizi segreti, dai politici ultranazionalisti serbi e serbo-bosniaci. Fino a pochi anni fa, d’altronde, Mladic percepiva un salario dall’esercito, che gli ha sempre creato il vuoto intorno per preservarne la libertà e non intaccare la mitologia barbara creata intorno alla sua rozza e sanguinaria figura dagli ultranazionalisti serbi. Che poi, a dirla tutta, se smettessimo di chiamare costoro ultranazionalisti e usassimo il nome che loro spetta – nazisti – faticheremmo meno e sarebbe tutto più chiaro.

Spossatezza, dunque. E, nella storicità del momento, in un’Italia in cui ben pochi sanno che cosa ha fatto costui alle nostre porte, alcune riflessioni vengono spontanee, e può valer la pena buttarle lì sul tavolo, magari parlarne, dando anche così fiato alle fanfare stonate dei sostenitori di Mladic – ne ha tanti anche in Italia – che ora cercheranno sfogo alla loro impotenza gretta, come sono soliti fare, nell’offesa e nel turpiloquio informatico, attività di cui sono veri maestri (basti vedere l’immondizia neo-nazista che molti di loro caricano su Youtube).

La prima riflessione riguarda l’annuncio di Boris Tadic, col quale il presidente della Repubblica serba – definito da molti un “nazionalista moderato” – oggi all’ora di pranzo raccontava ai serbi e al mondo che la latitanza di Mladic era finita. “Credo che l’operazione che ha portato all’arresto di Mladic renda il nostro Paese più sicuro, e più credibile.

Sono fiero del risultato raggiunto, è una cosa buona per la Serbia che questa pagina della storia si sia chiusa. E che si sia conclusa la fuga di Mladic. Ora bisogna continuare a cercare i suoi complici, quelli che l’hanno aiutato a nascondersi per tutti questi anni, anche tra membri del governo.

Arresteremo Goran Hadzic. Per adesso però penso che per la Serbia le porte dell’Ue siano aperte”, ha detto Tadic, più realista del re, come suo solito. Con poche parole il presidente serbo ha detto una serie di verità, verità inconfutabili per chi conosce un minimo la realtà di quelle parti.

Innanzitutto, il fatto che Mladic fino a oggi abbia goduto della protezione anche di membri del governo e delle alte sfere delle forze armate è innegabile; potremmo arrivare a dire che queste protezioni erano attive fino a ieri, vista la presenza di elementi nazionalisti radicali nel governo di Tadic, e che poi improvvisamente qualcosa deve essere cambiato. Questo vuol dire che sono in arrivo, nel medio o addirittura nel breve periodo, modifiche importanti anche nel governo serbo e che ora Tadic ha un ticket formidabile da far valere nei confronti dell’elettorato moderato serbo, che ha avuto fiducia in lui e che poi rappresenta la maggioranza degli elettori e dei cittadini serbi, donne e uomini stanchi che vogliono finalmente uscire dall’incubo degli anni Novanta e ricominciare a guardare con ottimismo e libertà al futuro. Un futuro europeo e non più filo-russo.

La seconda grande verità nascosta nelle parole di Tadic riguarda il fatto che ci sono ancora tanti, tantissimi criminali in circolazione, come ad esempio la marmaglia paramilitare di Arkan, e che ora tutti ci attendiamo che le manette scattino ancora parecchie volte e che le celle finalmente si riempiano.

Una terza verità riguarda la questione delle porte aperte nella Ue. La consegna, nell’estate del 2008, del barbuto Karadzic le ha schiuse, portando poco dopo dapprima Belgrado, poi Sarajevo, a firmare gli ambìti Asa, gli accordi di pre-adesione all’Unione europea. Ora la consegna di Mladic alla giustizia internazionale dovrebbe spalancare definitivamente le porte all’ingresso della Serbia nella Ue e assestare una mazzata da ko agli ultranazionalisti serbi e ai loro sostenitori russi. E questo potrebbe portare a un’interessante conseguenza, ovvero all’isolamento definitivo dell’ultranazionalista, provocatore e miliardario primo ministro serbo bosniaco Milorad Dodik,  l’ultimo assertore dell’indipendenza serbo bosniaca in un’ottica di successiva adesione all’ammuffito e fine ottocentesco progetto di Grande Serbia.

Le parole di Tadic, però, ci portano a spostare l’attenzione dai Balcani  all’Olanda, all’Aja. Il mandato del Tribunale scade alla fine del 2014 e, fino a oggi, in pochi tra i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu sono sembrati intenzionati a prolungarne i tempi di lavoro. Da qui alla scadenza del mandato del Tpi mancano due anni e mezzo. Per dare un’idea dei tempi del Tribunale, basti pensare che i quasi tre anni dall’arresto di Karadzic a oggi non sono bastati neppure per arrivare a una sentenza di condanna di primo grado, nonostante la riduzione d’ufficio dei tanti capi d’accusa. E sarebbe auspicabile che sia Karadzic che Mladic venissero condannati in appello (sempre che il malato Mladic abbia, ed è auspicabile, così tanti anni di vita davanti), prima di mandare in soffitta – se proprio necessario, ma su questo molti sono i dubbi – il Tpi. Quel che si chiede è un nuovo inizio al Tpi, ai potenti del mondo, alla giustizia internazionale. Le donne di Srebrenica di quello parlano da oggi, di un “nuovo inizio” successivo  all’arresto di Mladic. Loro, molto ma molto più stanche di tutti noi, sanno bene che il boia di Srebrenica ha ancora amici e sanno, ancor meglio, che fino a oggi sono riuscite a ritrovare e seppellire solo circa un terzo dei loro cari torturati e barbaramente ammazzati da Mladic e dai suoi nel luglio 1995. Il lavoro, quindi, è solo all’inizio, nonostante il tempo passato e il dolore che, invece, non passa mai. 

Un’ultima cosa su cui riflettere riguarda la posizione degli Stati Uniti e in particolare del presidente Barack Obama, giunto in Europa pochissime settimane dopo l’ultima “sparata” referendaria di Dodik, che questa volta puntava a spaccare la Bosnia Erzegovina minandone la credibilità del potere giudiziario. Ed è probabile che proprio dall’ultimo viaggio di Obama in Europa qualcosa si sia mosso e sia arrivato l’ok all’arresto di Mladic. Se così fosse, ancora una volta l’Unione europea, nella quale Belgrado e Sarajevo dimostrano di voler entrare con entusiasmo, avrebbe dimostrato la sua pochezza e la sua inconsistenza in politica estera. E questa è un’altra questione non di poco conto su cui riflettere, per noi “comunitari” e per coloro che vogliono entrare in questa strampalata e litigiosa famiglia. Che ricorda terribilmente la pochezza di questa nostra povera e tartassata Italia.

Ad maiora. 

Tombe musulmane in Bosnia

Mladic in cella, Balcani più vicini all’ingresso nell’Unione Europea

Bisogna andarci a Srebrenica per capire cosa sia la follia della guerra. Andarci l’11 luglio, quando sotto un sole che non lascia tregua, migliaia di musulmani si ritrovano per seppellire i loro mariti, fratelli, cugini, amici.
Gli 8mila trucidati dalle truppe guidate dal generale Mladic (oggi arrestato in Serbia) furono gettati in fosse comuni. Poi, temendo satelliti e indagini internazionali, i corpi furono disseppelliti e messi in altre tombe provvisorie. I poveri resti (dei maschi -dai 14 anni in su -radunatosi in quella zona che l’impresentabile Onu con l’aiuto dei coraggiosi soldati olandesi aveva promesso di difendere) furono sparpagliati anche in 5 differenti fosse. E così a Tuzla, pazientemente, decine di anatomi patologi ogni anno mettono assieme gli scheletri: grazie al Dna, tibie, scapole e crani vengono assemblati. Quando il corpo è “ricostruito” lo si restituisce alla famiglia. Alle famiglie. Che l’11 luglio in una cerimonia lunghissima dove, dopo la preghiera del muftì, vengono letti tutti i nomi delle vittime, vengono seppelliti tutti assieme.
Srebrenica non è Zenica, né Tuzla o Banja Luka. È solo un villaggio vicino al confine serbo ma non ha valore strategico. È difficile da trovare e da raggiungere. E alla fine si riduce in quattro case. Intorno alle quali, la morte si aggira dal 1995.
Non so con che spirito affronteranno la cerimonia funebre quest’anno. A Sarajevo aspettavano da tempo e questa notizia e gli amici laggiù si rallegrano dell’arresto. Anche se la Bosnia rimane uno Stato diviso, assolutamente non unitario. La speranza per tutti questi stati balcanici è l’ingresso nell’Unione Europea, con conseguente superamento delle frontiere “nazionali”.
La cattura di Mladic, dopo quella di Karadzic, dovrebbe accelerare anche l’ingresso di Belgrado nel club di Bruxelles.
Ad maiora.