Month: marzo 2011

Anna Politkovskaja a fumetti: la storia continua

“Anna Politkovskaja è diventata una figura eroica. Eppure, lei faceva soltanto il suo mestiere: la giornalista”. Così, in poche parole, Ottavia Piccolo descrive la cronista russa assassinata da sconosciuti, a Mosca, nel 2006. Poche parole per raccontare una lunga storia che la stessa Piccolo ha reso viva col suo spettacolo teatrale (Donna non rieducabile, di Stefano Massini, in scena all’Elfo Puccini di Milano fino al 3 aprile). E di cui l’associazione Annaviva cerca di tenere accesa la fiammella del ricordo, della memoria.

In questi anni mi sono chiesto come allargare il più possibile la conoscenza della storia di Anna, che ha un valore simbolico, iconico. Da qualche settimana ho tra le mani una delle possibili risposte: un fumetto che racconta la storia della giornalista russa. “Anna Politkovskaja”, si intitola. L’hanno scritta e disegnata Francesco Matteuzzi ed Elisabetta Benfatto per i tipi del Becco Giallo. La casa editrice sta cercando di tenere viva, col fumetto appunto, la memoria di fatti tragici come l’omicidio della Politkovskaja, quelli di Aldo Moro e di Ilaria Alpi, ma anche sulla Moby Prince.

Hanno creato un sito apposito sul libro e sulle sue presentazioni del libro su Anna:

http://annapolitkovskaja.beccogiallo.net/

Il volume, da comprare e leggere, è accompagnato dalla prefazione della Piccolo di cui ho riferito prima e da un’intervista a Paolo Serbandini, autore di un bel documentario sulla tragica fine della Politkovskaja (211: Anna). Nella parte non andata in onda in televisione – perché fatta tagliare – Serbandini ricorda le parole della giornalista russa: “Un giorno, ne sono sicura, ci sarà un Tribunale internazionale sulla Cecenia, e quel giorno Berlusconi entrerà nella storia come amico di un criminale”. Più di uno, temo.

Ad maiora

Francesco Matteuzzi ed Elisabetta Benfatto

Anna Politkovskaja

Becco Giallo

Pagg. 127

Euro 14

 

L’Onu farà la fine della Società delle Nazioni?

A leggere bene le carte, anche al momento del voto della risoluzione 1973 delle Nazioni Unite, si vedevano già ampiamente tutte le criticità che l’istituzione della “No fly zone” in Libia e l’autorizzazione di “tutte le necessarie misure” per proteggere i civili avrebbe provocato e che sono ora sotto gli occhi di tutti.

Tra i cinque Paesi che Consiglio di Sicurezza  – su 15 – che si sono astenuti (Brasile, Cina, Germania, India e Federazione Russa), due aveva soprattutto già capito la mala parata. I brasiliani (rappresentati da Maria Luiza Riberio Viotti – i Paesi all’avanguardia sono governati e rappresentati da donne) avevano dichiarato di “non essere convinti che l’uso della forza potesse garantire la realizzazione dei comuni obiettivi”, spiegando che “nessuna azione militare da sola porta alla fine di un conflitto”. I russi (rappresentati da Vitaly Churkin, ambasciatore attivo dai tempi della tragedia di Chernobyl) sottolineavano invece come “molte domande rimanessero senza risposta”, incluso “come” e “chi” e “con che limiti” si sarebbe messo in pratica la risoluzione. I dubbi sono ancora sul tavolo.

Poche ore dopo il voto, Sarkozy mostrava i muscoli in televisione, sollecitando i mai sopiti spiriti imperiali dei cugini d’Oltralpe. L’America del sempre più confuso Obama, inseguiva a breve distanza e dopo pochi giorni anche i nostri Tornado sfrecciavano per i cieli libici giusto per mostrare un tricolore che non fosse solo quello francese.

Ora tutti (salvo Sarkozy, cui distribuire le carte non era mai capitato e che sembra si stia divertendo) invocano l’intervento della Nato che – non si sa né chi né quando sia stato deciso – è diventato il braccio armato dell’Onu. L’Alleanza atlantica a mio giudizio avrebbe dovuto essere sciolta una volta vinta la battaglia con “l’impero del male”, una volta cioè collassato per implosione il suo avversario storico, il Patto di Varsavia. Così non è stato e i 28 paesi occidentali che compongono questa alleanza militare (che cerca di allargarsi a più Paesi possibili per mantenere una predominanza politico-militare) si incaricano di essere i soldati delle Nazioni Unite. Questa organizzazione internazionale, subentrata alla Società delle Nazioni ha già mostrato ampiamente i suoi limiti e mi auguro che venga superata non tanto dai vari G8, G20, G40 e chi più ne ha più ne metta (sorta di Rotary per Paesi ricchi dove si è cooptati), ma da una nuova organizzazione meno elefantiaca,  in grado soprattutto di rappresentare un mondo che cambia.

Ad maiora.

Per la Perina il “metodo Biagi”

Per Flavia Perina si è adottato il metodo che un tempo si riservò a Enzo Biagi. Una lettera di benservito.

Certe persone non hanno neanche il coraggio di alzare il telefono o, addirittura, di metterci la faccia.

Mi perdonerà il “nonno” che riposa lassù al cimitero di Pianaccio. Mi perdonerà per il paragone con una giornalista che nel passato è stata iscritta all’Msi ed è stata un’attivista tra i destri della Balduina. Mi perdonerà il “partigiano” Enzo Biagi ricordato – come recita un manifesto che mi sono portato a casa dopo il partecipatissimo funerale – “dai suoi compagni di Giustizia a Libertà”.

Al grande vecchio del giornalismo televisivo in fondo quel che più dispiacque del suo allontanamento dall’azienda del servizio pubblico radio-televisivo fu proprio il metodo. Quella raccomandata con ricevuta di ritorno che fu il suo cruccio fino a che Mazzetti e Fazio non gli diedero l’occasione di ricomparire in tv.

Flavia Perina, da quel che si apprende dalle odierne cronache, è rimasta basita soprattutto per la lettera con la quale il nuovo gruppo dirigente del Secolo (in maggioranza Pdl) l’ha “esonerata” da direttore politico della testata. Testata per la quale oggi alcuni giornali hanno ricordato le novità introdotte, come gli attacchi alle Gelmini e Minetti o gli elogi ai Guccini e Moretti. “Posizioni inattese” le ha definite il sempre distratto Corriere che evidentemente non ha letto “Il fascista libertario” di Luciano Lanna, rimasto (chissà per quanto) direttore responsabile del Secolo.

Ad maiora.

Hina, ragazza italiana, almeno da morta

Nel libro “Hina, questa è la mia vita” (Piemme editore) a un certo punto è descritto un episodio del quale sono stato, involontario, protagonista. Nell’estate 2006, nei giorni immediatamente successivi all’assassinio della ragazza bresciana, andammo a cercare qualche esponente della comunità d’origine, quella pachistana, per capire come valutassero l’accaduto. Mentre realizzavamo l’intervista in strada, alcuni automobilisti insultarono l’intervistato, gridandogli “assassino” e altri epiteti. Il mio servizio, quella sera, iniziò così. A segnare il clima scatenato dall’assassinio di Hina.

Il libro scritto dai colleghi Giommaria Monti e Marco Ventura mi è in parte piaciuto e in  parte no.

Le parti del testo in cui si parla della ragazzina, assassinata dai maschi della famiglia perché voleva essere italiana, è toccante. Soprattutto quando descrive la vita sbalestrata di questa giovane catapultata dal Pakistan alle montagne bresciane. La sua vitalità mal si conciliava con le rigide regole della famiglia e lei iniziò presto a ribellarsi ai tanti divieti paterni (come quello di fare il bagno e, alla fine, anche di andare a scuola, che pure marinava).

Non a caso i due autori citano per spiegare i contrasti tra genitori e figli un brano – bellissimo – del Profeta di Khalil Gibran:

«I vostri figli non sono vostri figli.

Essi sono figli e figlie della brama della Vita per la vita.

Essi vengono attraverso voi ma non per voi

E benché essi siano con voi, essi non appartengono a voi.

Voi potete dare loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri, poiché essi hanno i propri pensieri.

Voi potete custodire i loro corpi, ma non le loro anime, poiché le loro anime dimorano nelle case di domani, che non potrete visitare, neppure in sogno.

Potete essere come loro, ma non cercare di farli simili a voi, poiché la vita procede e non si ferma a ieri.

Voi siete gli archi e i vostri figli frecce vive scoccate lontano, verso il futuro».

Parole che il padre di Hina non ha decisamente fatto sue. Di lui, d’altronde, Hina aveva il terrore, come scriveva nella denuncia che- inviata ai giudice – fece scattare quel meccanismo di protezione sociale che la portò, minorenne, in una struttura protetta: «Ho paura, non mi fido di lui. Già in passato mi hanno ritirata da scuola. Avrei anche paura di essere mandata in Pakistan a sposare un pachistano che neppure conosco». Anche dopo l’assassinio, la famiglia voleva che la ragazza fosse sepolta in Pakistan. Il fidanzato-convinvente (parte civile al processo, a differenza della madre di Hina) si oppose.

Hina diventata maggiorenne ritirò la denuncia nei confronti del padre (nel libro si descrive l’interrogatorio dei giudici che cercano di capire se stesse mentendo all’atto della denuncia o in quello del suo ritiro), sperando in questo modo di riconquistare una pace familiare, seppure apparente. Nel volume si capisce come quello fu invece il primo passo della sua condanna a morte.

E proprio sulle motivazioni dell’omicidio il libro non mi ha fino in fondo convinto. Nell’intervista al padre di Hina, fatta nel carcere di Bollate, lui ribadisce la sua idea proprietaria nei confronti della figlia. La sotterra nel giardino di casa perché la vuole vicina, almeno da morta. Qualcosa di terribile, anche solo a pensarci.

Si cerca però in qualche modo di capire il gesto di Muhammad Saleem. Si parla del delitto d’onore (abolito, come attenuante, in Italia solo nel – non lontano – 1981) e si esclude la pista religiosa per l’assassinio. Però nel giardino di casa, Hina fu sepolta col capo rivolta alla Mecca e il taglio letale lungo il suo collo, sembrò a molti quasi rituale (pur colpita da 28 coltellate). Lo stesso padre di Hina, nell’intervista, dice che è stato condannato a 30 anni di carcere perché islamico e lancia anche un appello: «Per favore, dovete aiutare la mia famiglia. Tutta la vita sempre ho rigato dritto, non ho rubato, non mai fregato. Questa Italia ci ha rovinato, ha rovinato tutto, ha ammazzato tutta la mia famiglia. Senza padre e senza marito sono morti anche loro».

Questa deresponsabilizzazione infastidisce. Un padre assassina la figlia, colpevole solo di voler vivere in modo indipendente, coinvolge altri tre parenti maschi ed è colpa è dell’Italia?

Anche sulla madre di Hina (che compare nel volume) continuo a nutrire forte perplessità. Quelle urla isteriche che lanciò all’atto delle due sentenze nelle quali condannarono il marito-assassino non le ho sentite per la morte della figlia.

Ecco, forse avrei chiesto anche a una collega donna di collaborare alla stesura del libro: le fonti, giocoforza, in una struttura societaria come la nostra, sono infatti tutte maschili, dai carabinieri ai magistrati, dai giudici ai rappresentanti della comunità o agli esponenti religiosi, fino agli stessi narratori.

E poi qualche dubbio rimane. Perché fu messa in vendita la casa di Saluzzo? Perché ad uccidere e a nascondere il corpo di Hina parteciparono tutti i maschi della famiglia salvo uno, il fratello della ragazza (anche lui in Pakistan in quei giorni), che pure alle udienze del processo guardava noi giornalisti come se fossimo marziani pronti ad invadere il suo mondo?

Domande che non hanno trovato risposta nelle aule di tribunale. E che forse non le avranno mai.

Ma quando passo dal Vantiniano di Brescia vado a trovarla Hina. Sola in quel pezzo di terra islamica nel cuore di un cimitero bresciano. Lei, ne sono certo, non avrebbe voluto essere seppellita in Pakistan. Il nostro era (ed è diventato) il suo Paese.

Ad maiora.

Giommaria Monti e Marco Ventura

Hina, questa è la mia vita

Piemme

Pag. 302

Euro 16

Ottavia Piccolo riporta in vita Anna Politkovskaja a teatro

Torna a Milano da lunedì 21 marzo a domenica 3 aprile al rinnovato teatro Elfo Puccini Donna non rieducabile, il monologo di Ottavia Piccolo su Anna Politkovskaja. Torna perché andò in scena (ed ebbe un immediato, clamoroso successo) all’ex Paolo Pini nel 2007 grazie alle donne di Usciamo dal silenzio. 5 anni dopo l’impunito omicidio, la storia della giornalista della Novaja Gazeta è ancora purtroppo attuale perché, malgrado la repressione militare, non sono stati fermati i terroristi ceceni. Anzi, la cecenizzazione si è ormai diffusa in tutto il Caucaso se è vero che sono parecchie ormai le repubbliche instabili. Ma i giornali, come ha giustamente sottolineato l’autore del testo teatrale Stefano Massini, si occupano di Gullit e della squadra di calcio di Kadyrov, non delle sue milizie. Lo stesso Massini spiega che ha voluto concentrarsi sul caso della Politkovskaja perché i riflettori accesi su di lei all’atto dell’omicidio, poi si sono subito spenti. Colpa di quel “ripostiglio ceceno” denunciato dalla stessa giornalista.

Lo spettacolo teatrale è di una forza estrema. Sul palco (con la bravissima arpista Floraleda Sacchi) la Piccolo rappresenta appieno quella donna non rieducabile che e’ stata la cronista della Novaja uccisa per il suo lavoro. La regia di Silvano Piccardi è essenziale, anomala in un periodo di esibizionisti, anche a teatro. Ma come spiegava ieri, alla presentazione la forza delle parole e degli attori devono (o almeno dovrebbero) riempire la scena, senza bisogno di “far vedere case che crollano”. Questo è il teatro, che ormai molti confondono con la televisione.

Chi non ha ancora visto Donna non rieducabile ci vada. Chi l’ha visto all’ex Paolo Pini ci torni. La forza dello spettacolo è ancora maggiore grazie all’interpretazione della Piccolo che ha reso davvero viva Anna Politkovskaja.

Ad maiora

Ottavia Piccolo in

Anna Politkovskaja, Donna non rieducabile

Di Stefano Massini

Regia di Silvano Piccardi

Direzione tecnica: Katia Antonelli

Elfo Puccini, sala Fassbinder

21 marzo – 3 aprile

Prezzo: da 15 a 30 euro.

www.elfo.org