Ci sono delle notizie che raccontano più di altre la globalizzazione. E chi la stia cavalcando.
Quando scoppiano rivolte in regimi come quello libico, ogni Paese cerca di fare rientrare i propri connazionali in madrepatria.
In queste ore (ma anche nelle prossime, se gli aggiornamenti sull’omicidio di Sarah Scazzi non distrarranno l’attenzione) vedremo nei telegiornali, centinaia di italiani che fanno ritorno a casa. Quanti sono i nostri connazionali nel Paese di Gheddafi? 1.500. Pochi. Ma non dimentichiamo che da lì tanti vennero cacciati, dall’oggi al domani, dopo la rivoluzione verde.
E quanti europei lavoravano in Libia prima che protesta dilagasse e fosse repressa con i bombardamenti?
Per ora, i tedeschi rientrati sono 300. Gli spagnoli 220. I numeri cominciano a diventare consistenti con i turchi che in Libia erano più di duemila. 250 sono rientrati ieri da Alessandria d’Egitto, dopo aver varcato la frontiera libica in pullman.
Nella lontana Corea del Sud torneranno i 1.400 sudcoreani che lavoravano per le aziende di Seoul (presenti in Libia fin dal 1978).
Ma il numero che lasci basito chiunque non abbia capito quanto Pechino si sia immessa nei gangli vitali dell’economia africana, riguarda proprio il numero di cinesi che si sta cercando di far rimpatriare: 30.000. 30mila persone vuole dire più abitanti di quanti e faccia la città di Isernia.
Non a caso, in questi giorni, negli ospedali libici, sono numerosi i cittadini di origine cinese rimasti feriti negli scontri. La Cina, che ha aperto un’unità di crisi, sta mandando in zona aerei, una nave cargo e alcune navi da crociera per cercare di mettere in salvo le decine di migliaia di connazionali.
Gli investimenti cinesi troveranno nuovi sbocchi in altri Paesi del continente nero.
Ad maiora.