Month: novembre 2010

Voto ad Haiti: come annunciato, il cantante in testa

Da Haiti, qualche post fa, avevo scritto che i sondaggi davano in vantaggio Michel Martelly, detto “Sweet Mickey”, il cantante della musica haitiana Kompa.

Il popolare cantante aveva addiruttura annunciato di volersi ritirare per i brogli. Non l’ha fatto. Meglio per lui.

Era dato oltre il 35% ed è arrivato al 39%. Qualcuno pensa che senza il caos preelettorale e i brogli, avrebbe vinto al primo turno. E invece andrà al ballottaggio contro l’ex premiere dame,  Mirlande Manigat, moglie di Leslie, il primo presidente  del dopo  Duvalier, che si ferma al 31% dei voti.

Quello che per la gran parte dei giornalisti (haitiani e occidentali) era il favorito, Jude Celestin, il delfino del presidente Prevàl, è stato invece nettamente battuto: solo 12%. Paga la delusione del suo sponsor.

Si andrà al ballottaggio il 16 gennaio.

Se dovessi scommettere, metterei dei soldi sul cantante. L’unico che mi sembra rappresentare un po’ lo spirito di quell’isola.

Ad maiora.

Veltroni e i festini selvaggi di Raperonzolo

Quando si modera un dibattito, mentre si è sul palco vengono a galla una serie di pensieri che – non potendoli esprimere al vicino di sedia – si ricacciano indietro.

Qualcuno sopravvive, anche il giorno dopo.

Le bolle di pensiero che mi sono rimaste dall’incontro di ieri sera al Teatro Litta di Milano con Gentiloni, Fioroni e Veltroni, sono ovviamente quelle più leggere, meno significanti dal punto di vista politico. E riguardano entrambe l’intervento dell’ex segretario del Pd, tornato da qualche mese al centro della scena pubblica.

La prima bolla è emersa mentre Veltroni parlava di mettere al centro il programma del Pd prima di pensare alle alleanze (non ha risposto alla provocazione che gli ho buttato lì, dopo il suggerimento di Facebook, dei tre oni che si alleano coi due ini, per fare una media). Era una risposta al saluto introduttivo di Maurizio Martina che teme che il Pd da “soluzione del problema” possa diventare “parte del problema”. Di qui, nelle parole dell’ex sindaco di Roma, la spiegazione della lettera dei 75 e altre considerazioni che trovate sui giornali.

Ciò che mi ha colpito è stata però una frase di Veltroni che, in caso di voto anticipato, paventava “elezioni selvagge”. Ossia, a causa di questa legge elettorale, un risultato diverso da quello auspicato.

Di selvaggi in questi giorni avevamo i festini segnalati dall’ambasciata americana e smentiti da Berlusconi (che li ha pronunciati in inglese per non farsi capire dai più). Ora anche le urne possono essere selvagge. Sarà segno di imbarbarimento?

La seconda bolla di pensiero, ancora più leggera e fru fru, mi è salita in gola mentre Uolter parlava della necessità che il Pd offrisse agli italiani un nuovo sogno.

Anche la parola sogno in questi giorni ricorre spesso. Nella telefonata, smentita, tra Silvio e la escort Nadia, lui si sarebbe presentato dicendo: “Pronto, sono il sogno degli italiani”.

Se dalla “politica” passiamo ai cartoni animati, il sogno da realizzare è al centro di Rapunzel, versione post-moderna di Raperonzolo, al cinema in questi giorni. Lì la principessa (ancora ignara di essere tale) entra in una bettola e, incitandoli a coltivare e realizzare i propri sogni, convince una serie di energumeni a diventare buoni. A tornare a sognare.

Resta da vedere se il sogno degli italiani sia rappresentato da Silvio, Uolter, Umberto, Nichi, Bersani, Di Pietro, Casini o Fini.

Ma forse, nell’immaginario collettivo, di selvaggio ci sono più i festini che le elezioni. Parola cui basta cambiare una lettera per ottenere tutt’altro significato. Tutt’altro?

Ad maiora?

Non è l’11 settembre. E’ l’epifania

Che il re fosse nudo, chi scrive e gli amici di Annaviva, l’avevano detto ben prima che l’imperatore uscisse dal suo castello di Arcore e che il sito Wikileaks pubblicasse documenti riservati delle ambasciate a stelle e strisce.

Che il rapporto tra il presidente del consiglio italiano e quello russo fossero pericolosi era sotto gli occhi di tutti. Quanti, a destra come a sinistra, in queste ore si stracciano le vesti avrebbero fatto bene a parlare prima. Perché, come per i rapporti col dittatore libico, anche quelli col regime putiniano sono stati avallati anche da coloro che oggi sono all’opposizione. Questo non va dimenticato. Eccezion fatta per l’Ucd di Casini e per i radicali, la gran parte delle scelte energetiche messe sott’accusa dagli americani, risultavano discutibili fin dalle loro premesse.

Che l’alleanza Eni-Gazprom avrebbe ridotto le nostre possibilità di manovra era evidente. Eppure, malgrado l’Unione europea lavorasse per evitare che i russi fossero l’unico referente nella compravendita del gas, noi italiani abbiamo fatto da Cavallo di Troia. Ci hanno poi seguito i tedeschi (col nuovo gasdotto a nord) e i francesi (entrati ora in quello, costruendo, a sud- a scapito nostro, peraltro che non siamo neanche soci paritari ora, a differenza del passato).

Ma se l’Europa fosse stata unita, tutto questo non sarebbe successo. E invece, comanda chi vende e non chi compra. Perché tratta con 27 interlocutori anziché con uno solo.

La domanda peraltro che, come Annaviva, continuiamo  a porre è prettamente nazionale, che non riguarda gli interessi americani, e nemmeno quelli europoi. Ma di quanti abitano nel Bel Paese.

Posto che l’Eni è una società quotata in Borsa ma che è, grazie alla golden share, nel pieno controllo della Repubblica Italiana, quale vantaggio hanno ottenuto i cittadini di tale Repubblica da questi accordi con in russi?

Paghiamo meno il gas? Non mi pare. Abbiamo rifornimenti più stabili, non avendo centrali? Vero. Ma nessuno dei cervelloni aveva previsto che il prezzo del gas liquefatto sarebbe sceso così tanto, avendo gli Usa trovato nuovi giacimenti gasiferi (o meglio altre, moderne tecnologie di estrazione)?

Non sarebbe stato meglio fin dall’inizio, liberalizzare la rete del gas, come è avvenuto per quella elettrica?

E, cambiando settore, ma tenendo liinquadratura sul Cane a sei zampe: paghiamo meno la benzina all’ex Agip? Mi pare il contrario.

Che paese è quello che si accontenta delle tesserine sconto di You&Eni?

Gli accordi italo-russi sulla Yukos di Khodorkovskij, avviati durante il governo Prodi e portati a termine con Berlusconi, sono lì a raccontare ben più di quanto i file di Assange rivelino.

Ad maiora

Noi siamo noi (dimenticando il sempre attuale Marchese del Grillo)

Casalecchio di Reno, 35mila abitanti alle porte di Bologna.
Era noto fino a qualche anno fa solo per la strage causata – nel 1990, ma sembra passato un secolo – da un aereo militare finito in una scuola: salvo il pilota (catapultatosi fuori prima dell’impatto ma assolto nei successivi processi perche’ “il fatto non costituisce reato”) morti invece 12 ragazzi, 88 i feriti (la stragrande maggioranza con danni permanenti).
Dal 2005 la cittadina ospita una due giorni di incontri che si intitola ‘Politicamente scorretto’. Viene curato da Casalecchio delle Culture in collaborazione con Carlo Lucarelli e l’associazione Libera. L’idea e’ quella di mettere a confronto gli scrittori di noir con la realtà.
Al centro del confronto quindi soprattutto le mafie e anche le loro infiltrazioni al nord e come fermarle.
Ieri si e’ parlato anche di Anna Politkovskaja (con lo spettacolo di Stefano Massini “Donna non rieducabile”, interpretato ancora una volta in modo superbo da Ottavia Piccolo) e di “meschinopoli”, con giornalisti e intellettuali a confronto sul tema: si e’ toccato il fondo? La risposta e’ stata, ahinoi, negativa.
Personalmente il dibattito che mi ha incuriosito e interessato di più e’ quello dal titolo “L’Emilia Romagna incontra la Sardegna”. Ossia scrittori delle due regioni a confronto.
L’aspetto legalitario e connesso alle mafie e’ stato affrontato da Eraldo Baldini che ha raccontato come interi quartieri e negozi lungo la Riviera romagnola siano già stati colonizzati e che presto, quando verranno messe all’asta, le mafie potranno mettere le mani/zampe anche sugli stabilimenti balneari.
Ma sono gli scrittori sardi (Marcello Fois, Francesco Abate, Flavio Soriga e la schioppettante Michela Murgia) che – pur mettendo in evidenza le differenze tra le varie zone dell’isola – hanno ragionato sul concetto di “noi”.
Un concetto che, a loro dire, deve essere inteso come includente e non come escludente. Che sia un ponte e non un muro, per richiamare il grande Langer.
Ed e’ curioso (ma forse anche logico) che questo appello venga da una delle regioni con più forte la cultura identitaria.
Un elemento sul quale riflettere anche quassù al Nord.
Sperem!

In medio stat virtus?

Un tempo facevano scandalo le corna del presidente Leone mentre andava a trovare gli ammalati di colera (in alcune regioni italiane è endemico, a differenza di Haiti).

Ora invece il dito medio sembra scandalizzare sempre meno. Anzi è una sana provocazione, come quella del grande Cattelan rivolta alla Borsa di Milano, gioia e dolore del nostro incerto paese.

Tempo fa era stato Berlusconi (in piena forma, non melanconico e musone come in questi giorni) a mostrare il terzo dito a dei manifestanti che osavano non amarlo mentre teneva un comizio con una delle sue parlamentari (Michela Biancofiore, che nonno Biagi chiamò “biondona” e che alla sua festa di compleanno, a gennaio, organizzata ad Arcore, con Silvio malconcio per la statuetta, ha tagliato una torta nella quale veniva proprio raffigurata la scena).

Poi ci aveva pensato il ministro Bossi a spiegare, in quel modo un po’ spiccio, che non avrebbe parlato ai giornalisti. È un linguaggio semplice, che non richiede neanche di abbassare il finestrino per farsi capire.

Ieri, di fronte alla goleada che ha seppellito il Panathinaikos, un esaltato tifoso ateniese ha invaso il campo  ha mostrato il dito medio a Leo Messi, autore dell’ennesima partita da scarpa d’oro (le indossa per davvero, come potete notare…).

Il volto di rassegnata indifferenza con cui il campioncino argentino guarda il soggetto che lo insulta è la miglior risposta che si possa dare a chi usa così l’indice (che una volta, durante la Guerra dei cento anni, si dice i francesi tagliassero agli inglesi, ottimi arcieri, per impedire di scoccare la freccia – veniva mostrato dai nemici come insulto e come dimostrazione di avere tutte le dita, per quello laggiù ne usano anche due per mandarti a quel paese).

Ad maiora.