Come mi facevano notare giustamente ieri delle studentesse russe a Gargnano, il silenzio dei media tradizionali italiani su quanto sta accadendo in Kirghizistan è assordante. Cerco di ovviare con questo piccolo contributo.
Per quanto, le due parti (il presidente deposto, che si è rifugiato nel sud del paese, e il governo provvisorio, nominato dagli insorti) si minaccino a suon di slogan e di colpi di kalashnikov, sarebbero in corso trattative.
L’attuale situazione porta infatti ai rischi di uno scollamento di questa repubblica sorta dalle ceneri sovietiche.
Il sud del Kirghizistan è a maggioranza uzbeka, in crescita sia a livello economico che demografico. La precedente rivoluzione “colorata” era partita da qui, mentre questa ha visto questa parte del paese, dapprima silenziosa e ora schierata a favore del presidente quasi deporto Bakijev. Il nord, khirgiso e più povero, ha dato il là alla rivolta che ha portato a questa sorta di colpo di stato (o di rivoluzione, se intendiamo con questo termine l’abbattimento “popolare” di un regime) che ha provocato la morte di 83 persone.
Nel Kirghizistan meridionali gli oligarchi sono ora preoccupati di perdere il potere conquistato dopo aver finanziato la rivoluzione dei tulipani e dettano ora le condizioni ai nuovi poteri forti. «Pretendiamo norme in grado di garantirci tutti i diritti economici e politici», ha detto, senza mezzi termini, il magnate Kadjrschan Batjrov. Pretendiamo, non chiediamo. Parole non pronunciate per caso. Mentre il presidente deposto arringa la folla di suoi sostenitori, chi ha finanziato la sua ascesa, cerca di mantenere un posto nella spartizione dei prossimi affari. È anche vero che il governo provvisorio è guidato da Rosa Otumbaeva, che ha partecipato attivamente all’altra rivoluzione e che si era allontanata dal gruppo di potere (del quale aveva comunque per qualche tempo, fatto parte, come ministro degli esteri).
Intanto, nella capitale kirghisa Bishkek, il ministro ad interim della giustizia Beknasarov minaccia di arrestare il presidente, ma in realtà quest’ultimo starebbe trattando le sue dimissioni in cambio di un’immunità per lui e per i suoi famigliari. Le dimissioni di Bakijev sono necessarie per dare un seguito costituzionale a questa crisi “rivoluzionaria”. Il Kirghizistan è infatti una repubblica presidenziale. In caso di impedimento del Capo dello Stato le responsabilità passano (come è avvenuto in questi giorni in Polonia, dove domani verrà comunicata la data delle elezioni) al presidente della Camera che indice nuove elezioni. Un passaggio di poteri ora è però impossibile: il presidente del parlamento kirghiso è riparato in Russia, a San Pietroburgo, e non sembra aver intenzione di rientrare. Al terzo posto nelle gerarchie istituzionali ci sarebbe il primo ministro, ma Daniar Ussenov si era dimesso qualche giorno prima della rivolta. Al momento dello scoppio della rivoluzione, il presidente Bakijev stava cercando di modificare la costituzione anche per cambiare il passaggio dei poteri. Ma lui, che ha cavalcato la rivoluzione colorata del 2005 è stato a sua volta travolto da una rivoluzione, questa volta forse sotto la regia di Mosca (che a differenza degli americani, quando vince non si crogiola: come ogni giocatore di scacchi, pensa alla prossima partita).
Le nuove autorità provvisorie khirghise continuano a rassicurare gli americani che la loro base militare di Manas non verrà toccata. Quella è una struttura centrale per il supporto logistico della guerra americana in Afghanistan. Ma mentre il “premio Nobel per la pace” si fa scattare decine di imbarazzanti photo-opportunity con molti dei potenti del mondo, nel resto del pianeta la geopolitica prosegue. E la Russia, che sembrava sconfitta fino a qualche anno fa, è sempre più forte e abile. I rumors internazionali dicono infatti che Bakijev sia stato fatto cadere proprio per il suo atteggiamento ambiguo verso gli americani.
Sui loro tg, come sui nostri, di quel che accade a Bishkek come nella valle di Fergana, non ha dignità di notizia. Eppure le cose si muovono. Anche lontano dalla Cnn e dai sorrisi di Obama. Abituato a giocare a basket e a baseball. Ma non a scacchi.
Ad maiora